Film erotici - Cleis Ende https://www.cleisende.it/recensioni/film-erotici/ Parole sporche Tue, 11 May 2021 16:57:16 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.8.3 https://www.cleisende.it/wp-content/uploads/2020/11/cropped-Icona-CleisEnde-1-32x32.jpg Film erotici - Cleis Ende https://www.cleisende.it/recensioni/film-erotici/ 32 32 Sexify di Netflix, come (NON) parlare di orgasmo femminile https://www.cleisende.it/sexify-netflix-recensione/ Tue, 11 May 2021 16:57:09 +0000 https://www.cleisende.it/?p=891 Sexify”, la nuova serie polacca di Netflix, vorrebbe parlare di orgasmo e di imprenditoria femminile, entrambe tematiche interessanti. Di fatto, non riesce a fare nessuna...

L'articolo Sexify di Netflix, come (NON) parlare di orgasmo femminile proviene da Cleis Ende.

]]>
Sexify”, la nuova serie polacca di Netflix, vorrebbe parlare di orgasmo e di imprenditoria femminile, entrambe tematiche interessanti. Di fatto, non riesce a fare nessuna delle due cose.

Dovrei piantarla di farmi del male così e lasciare il compito al buon Mela: mi darebbe sicuramente più soddisfazioni. Eppure continuo imperterrita a guardare telefilm di dubbia qualità, che si preannunciano imbarazzanti fin dai primi episodi. Chissà, magari spero in un colpo di scena a metà stagione che mi faccia cambiare idea; oppure sono più masochista di quanto non mi piaccia ammettere.

Tutto questo pippone per dire che “Sexify” fa cagare su tutta la linea: struttura della storia, contenuti, messaggio finale. Davvero, una Caporetto del telefilm al femminile. Vediamo di tirarne fuori qualcosa di buono.

La trama

Dio santo, le premesse non erano nemmeno malvagie.

Natalia è una studentessa di informatica che sta lavorando a una app per ottimizzare il sonno, da presentare a un concorso universitario che mette in palio un sostanzioso finanziamento. Peccato che il professore bocci la sua idea e la metta di fronte a una scelta:

  • unirsi al progetto di un altro gruppo, ma Natalia è del tutto incapace di socializzare, se non proprio nello spettro autistico;
  • lavorare a una nuova app, ma mancano solo 3 mesi al concorso.

Insomma, la nostra protagonista è in merda.

Dopo un tentativo fallimentare di unirsi al progetto di un compagno di corso, Natalia decide di convertire la sua app sul sonno in una app per ottimizzare l’orgasmo femminile. Sarebbe anche una bella idea, non fosse che lei è vergine e probabilmente asessuale.

Ad aiutarla nell’impresa ci saranno la sua migliore amica Paulina e la figlia di papà Monica. La prima sta insieme a un uomo che non sa nemmeno cosa significhi la parola “preliminare”. La seconda scopa come un riccio, ma riesce a venire solo se pensa al suo ex. Il terzetto delle meraviglie.

Si può sapere di cosa parla “Sexify”?

E tu mi dirai: “ma non l’hai scritto sopra?” Ni: sopra ti ho esposto la trama di “Sexify”, ma qui sto parlando del tema della storia, il filo rosso che unisce tutte le mirabolanti avventure di protagonista e coprotagoniste. Non dev’essere niente di particolarmente profondo, basta che ci sia: serve a rendere la narrazione organica, non a svelarti il senso della vita.

In una storia scritta come si deve, il protagonista ha un difetto fatale in linea con il tema scelto (ne parlo anche nella recensione di “Ho imparato a odiarti”). Non è l’unico difetto che ha, sia chiaro, ma è l’unico rilevante ai fini della trama. Se non sarà in grado di superare quel difetto, infatti, non riuscirà ad affrontare le sfide che gli si presentano davanti e perderà per sempre qualcosa di importante. In questo modo tutta la vicenda verte su questo tema e dimostra il punto di vista dell’autore a riguardo. Se il tema non è chiaro, è improbabile che il difetto del protagonista lo sia: sono due cose strettamente legate.

Se nella storia ci sono un protagonista con dei coprotagonisti, come in questo caso, ciascuno di essi incarna una variante dello stesso difetto fatale. Questo è importante per mantenere la narrazione coerente e organica.

Spesso lo spettatore non si rende nemmeno conto dell’esistenza di questo filo rosso, ma si accorge fin troppo bene della sua mancanza: la storia non va da nessuna parte e non se ne capisce il punto, i protagonisti sono superficiali, il finale è stupido… Sono le rimostranze tipiche, in questi casi.

Quale problema devono risolvere le protagoniste?

Di cosa parla “Sexify”, quindi? In teoria, basterebbe trovare il difetto fatale delle protagoniste per capirlo. In teoria.

All’inizio, pensavo che fosse l’importanza di imparare a comunicare: Natalia è incapace di interagire con gli altri, appunto, quindi sarebbe un difetto fatale perfetto per lei. Anche Paulina ha dei seri problemi di comunicazione con il compagno. Inutile specificare quanto si sposi bene con la questione dell’orgasmo femminile.

Il tema della comunicazione emerge anche con Monica, soprattutto in alcuni dialoghi con la madre. Ciononostante, non so quanto si applichi bene a lei.

All’inizio della storia, Monica non frequenta l’università, il padre le ha appena tagliato i fondi, scopa con chiunque per noia. A occhio, sembrerebbe una persona che non ha ben chiaro cosa vuole fare della propria vita, più che una persona incapace di comunicare.

Man mano che la storia va avanti, il focus inizia a ballare ancora di più: il tema della comunicazione sparisce, di fatto. Sembra che il telefilm si concentri soprattutto sull’importanza di conoscersi e di seguire la propria strada, anche quando è diversa da quella che vorrebbero gli altri. Si adegua alla vicenda di Monica, insomma.

Il tema in questione non sarebbe nemmeno male, intendiamoci, e potrebbe essere in linea con le vicende di Paulina. Ci sono due problemi, però:

  • sarebbe dovuto essere centrale fin dall’inizio per tutte, non cicciare fuori a metà stagione;
  • non c’entra un tubo con Natalia, almeno per buona parte del telefilm.

Una protagonista che non agisce

Natalia è un personaggio privo di una direzione e si vede: agisce poco e, quelle poche volte che lo fa, non ottiene niente. Ben presto la storia finisce in mano alle due coprotagoniste, in particolare a Monica. È quest’ultima che trova la “soluzione” per la app, che la mette in atto, che le prepara un pacchetto accattivante. Natalia si limita quasi sempre a seguirla.

Il problema di Natalia è che ha un mucchio di difetti, ma non un unico difetto fatale. Come detto sopra, il protagonista dovrebbe avere un difetto che spicca su tutti gli altri da risolvere. Natalia ha problemi di comunicazione, non conosce il proprio corpo e non ha ben chiaro cosa vuole, è troppo influenzata da ciò che la società vorrebbe da lei, è incapace di collaborare. Ciascuna di queste cose le mette i bastoni tra le ruote e rischia di farla fallire, ma nessuna si delinea come IL problema da risolvere.

Ovvio che non si capisca un tubo!

Verso la fine il suo personaggio trova pressapoco una direzione, adeguandosi a quella presa dalle altre e aperta da Monica. Lo fa dopo aver passato tutto il telefilm girando a caso e senza cambiare (ovviamente, perché come dai un arco di trasformazione a un personaggio senza un difetto fatale?). Sarebbe stato già abbastanza brutto per un personaggio secondario, ma è inaccettabile per un protagonista, che dovrebbe essere il motore della storia.

Il clitoride, il grande assente

Ottimo, abbiamo demolito “Sexify” sul fronte della scrittura. Passiamo al resto.

Senza fare spoiler, alla fine il telefilm pare volersi concentrare sull’importanza di conoscersi e di trovare una propria dimensione, indipendentemente da quello che vogliono gli altri. Non solo il tema spunta fuori verso la fine – e no, non basta un monologo appassionato della protagonista per renderlo il vero tema del telefilm – ma è in aperta contraddizione con buona parte di ciò che vediamo.

Parliamo di orgasmo femminile, no? Sapete chi è il grande assente, in tutto questo? Il clitoride, dio santo, il clitoride! Si calcola che più dell’80% delle donne non riesca ad avere un orgasmo senza la stimolazione del clitoride, punto percentuale in più o in meno. Eppure, in un telefilm che vorrebbe parlare di orgasmo femminile, questo viene citato a dir tanto tre volte e solo di sfuggita.

Si cerca la chiave universale del piacere e si dimentica il cazzo di passepartout che abbiamo in mezzo alle gambe!

In “Sexify” il piacere femminile è sempre trattato in relazione alla penetrazione, in linea con i peggiori stereotipi da film porno mainstream. E no, non è la visione iniziale che verrà poi contraddetta dai fatti: dall’inizio alla fine, l’orgasmo femminile è quella cosa che avviene con un partner e mediante penetrazione. La masturbazione viene trattata solo di sfuggita e quasi sempre in termini negativi.

Con buona pace del “seguire altre strade”, “conoscere te stessa” e queste cose qui. Complimenti.

Asessualità, il grande sconosciuto

La peggiore contraddizione a quello che vorrebbe essere il messaggio finale, però, arriva da Natalia. La nostra cara Natalia è asessuale, è evidente: non si masturba, non le interessa il sesso, non prova alcun tipo di eccitazione neanche quando è fatta fino alla punta dei capelli. Non è una persona inibita come Paulina: non gliene frega proprio niente.

Sarebbe stato un aspetto interessantissimo da esplorare, specie in linea con il “conosci te stessa e fai il cazzo che vuoi”. Si sarebbe potuto costruire un arco nel quale lei cercava disperatamente di interessarsi al sesso, fino a prendere atto della propria asessualità e abbracciarla. Ci ho (ingenuamente) sperato fino alla fine.

Che povera illusa.

In realtà, alla fine del telefilm Natalia si butta sul classico “non conosco me stessa e non so come comunicarlo”, presentando la app come la soluzione al problema. Insomma, la ciliegina su una torta di merda.

Devo anche specificare che non vi consiglio la visione di “Sexify”?

L'articolo Sexify di Netflix, come (NON) parlare di orgasmo femminile proviene da Cleis Ende.

]]>
Love & Anarchy: quando la normalità è una prigione https://www.cleisende.it/love-and-anarchy-recensione/ Sun, 08 Nov 2020 19:22:34 +0000 https://www.cleisende.it/?p=817 “Love & Anarchy” è prima di tutto un inno alla stranezza, al diritto di andare controcorrente, e solo dopo una storia d’amore. Perché? Quando mi...

L'articolo Love & Anarchy: quando la normalità è una prigione proviene da Cleis Ende.

]]>
“Love & Anarchy” è prima di tutto un inno alla stranezza, al diritto di andare controcorrente, e solo dopo una storia d’amore. Perché?

Quando mi metto a lavorare a maglia, finisco sempre per beccare roba strana. Una volta è quella cagata di “365 Days”, un’altra è quella mezza delusione di “Qualcuno deve morire”… A questo giro mi sono imbattuta in un’opera abbastanza ben scritta, ovvero “Love & Anarchy” (“Kärlek & Anarki” in svedese).

La serie si fa guardare e, per un volta, ha un finale sensato. Pur essendo graziosa, mi ha però urtato un pelo i nervi in certe parti.

La trama

Sofie Rydman è una consulente aziendale freelance sposata con un noto regista pubblicitario, madre di due figli. La sua è una vita opprimente: quando non lavora, sta badando ai figli o al padre, che entra ed esce dall’ospedale psichiatrico; il marito non la calcola di pezza; gli amici sono i classici conoscenti buoni solo per partecipare alle feste.

I suoi unici momenti di sollievo sono quando si chiude in bagno per masturbarsi, mentre i figli bussano alla porta per chiederle roba. Mi stavo deprimendo per lei.

Sofie inizia a lavorare per una casa editrice sull’orlo del fallimento e qui incontra Max, informatico poco più che ventenne e bello come il sole. Max ha anche una notevole faccia di bronzo: quando sorprende Sofie a masturbarsi in ufficio, la fotografa e le fa credere di volerla ricattare.

Questo primo “incidente” dà il via a una serie di sfide bizzarre, tutte volte a contraddire norme sociali che consideriamo normali: “non urlare senza motivo”, “guarda dove cammini”, “rimani al tuo posto”… Inutile dire che le cose prenderanno presto una svolta romantica.

Uniformarsi o uscire dal guscio?

Il tema principale della serie è il valore della normalità nella nostra società. A causa della malattia del padre, Sofie è sempre molto attenta al rispetto delle norme sociali, troppo attenta. Di fatto si masturba non tanto per desiderio sessuale, quanto per alleviare il peso delle regole che la schiacciano.

L’oppressività delle regole sociali emerge anche in altri personaggi, come nella figlia maggiore e nel padre. La prima è una ragazzina solitaria e matura, che preferisce passare l’intervallo sui libri piuttosto che stare con gli altri. Il secondo è un vecchio comunista che cerca (invano) di combattere l’avanzata della tecnologia. Entrambi soffrono all’idea di adattarsi a “come vanno le cose”, il che li rende quasi dei reietti.

Tutto il telefilm è quindi una difesa dell’essere “strano” e genuino, nonché della necessità di trovare una propria strada indipendentemente da quello che pensano gli altri. Il messaggio è condivisibile di per sé; il problema è un po’ la messa in atto.

“Strano” è sempre bello?

Premetto che questa è un’idea del tutto personale. Condivido il tema centrale del film, specie perché io stessa mi sono sempre collocata tra quelli “strani”. Non mi ha fatto impazzire com’è stato declinato in certi punti, però.

Tutto “Love & Anarchy” è impregnato di una non troppo velata critica ai tempi moderni, a internet, alla perdita di valori. A me queste cose fanno sempre girare un po’ le palle, perché mi sembrano semplificazioni stucchevoli.

I giovani sono sempre mezzi lobotomizzati, troppo concentrati sui loro telefoni per vivere davvero. Se preferisci leggere piuttosto che stare con gli altri, sei un’anima sensibile e unica. Gli psicologi sono sempre individui tristi, che vogliono soffocare la luce speciale che brilla in te. Se vuoi fare vera arte, non puoi attenerti a regole o a piani editoriali.

Dio santo, manca solo il classico: “non ci sono più le mezze stagioni” per avere il quadro completo.

Da scrittrice capisco che spesso si debba semplificare per mandare un messaggio. In questo caso, però, gira tutto intorno a messaggi discutibili, pensati per vincere la simpatia di chi si sente un delicato fiocco di neve in una società cattiva.

Sofie e Max, la strana coppia

Finito l’angolo della polemica, il tema della “stranezza” si declina anche nel rapporto tra Sofie e Max. I due protagonisti sono legati da una bizzarra e ambigua amicizia, ben lontana da quello che le norme sociali prescrivono.

Ci si aspetterebbe che Max dia corda alle avance delle sue coetanee, invece che fissarsi con una donna di vent’anni più vecchia. Dal canto suo, Sofie dovrebbe comportarsi da madre di famiglia responsabile, non lasciarsi incantare dal vigore giovanile del collega. Invece, i due legano sempre di più e in modo tutt’altro che amicale.

Devo dire di aver gradito questo modo di rappresentare il tema, ben più delle cavolate viste sopra. Nella nostra società è considerato normale che un uomo adulto flirti o addirittura scopi con una ragazza più giovane. Il contrario è sempre visto di cattivo occhio, come qualcosa di strano e addirittura inquietante.

Basti pensare alle malignità dette su Brigitte Macron, venticinque anni più vecchia del presidente francese. Melania Trump è venticinque anni più giovane dell’ormai ex presidente, ma la cosa non pare aver altrettanto turbato gli animi.

Il finale

Il finale di “Love & Anarchy” è in linea con il tema della serie, al contrario del finale di “Cuties”.

Il marito di Sofie, stufo delle stranezze della moglie e del suocero, decide di trasferire l’intera famiglia a Londra. Sofie si spegne e pianta in asso sia il povero Max sia la casa editrice, che è più che mai in merda.

Durante una giornata alla spa con degli amici, Sofie capisce però di non volere quella vita. Molla marito e amici, raggiunge la casa editrice e si ricongiunge con il suo amore. Quanto alla casa editrice, si intuisce che potrebbe trovare la salvezza grazie a un manoscritto eccezionale.

Sorvoliamo sull’ottimismo di cui l’ultima frase è pregna. In ogni caso, alla fine i “buoni” rifiutano le convenzioni sociali, scegliendo di seguire la propria strada indipendente da ciò che dicono gli altri. Questo li premia con l’amore, l’amicizia e con nuove soddisfazioni personali. Perfettamente in linea con il tema della serie, se ci si ferma qui: l’importante è non fare un’altra stagione.

Netflix, non girare “Love & Anarchy 2”!

Con tutti i suoi piccoli problemi, “Love & Anarchy” è comunque una serie finita, che non ha bisogno di un seguito. Anzi, i protagonisti hanno raggiunto i loro obiettivi, il tema si è concluso e va bene così. Una seconda stagione potrebbe solo smontare il messaggio della prima stagione.

Alla fine della prima stagione, la casa editrice è ancora messa male come all’inizio e questo è una svista abbastanza grave. Il grande problema della casa editrice è infatti il suo rifiuto di piegarsi a certe convenzioni; guardando il tema del telefilm, questo dovrebbe essere solo un bene, e invece… Per sopravvivere in una seconda stagione, dovrebbe fare i compromessi che ha rifiutato.

Meglio sorvolare, lasciando credere agli spettatori che il romanzo finale è bastato a salvarle il culo.

Quanto a Max e Sofie, in una seconda stagione sarebbero una coppia senza giochi o scommesse (a meno di non voler fare una copia della prima stagione), quindi relativamente normale. Non vedo quali altre tematiche interessanti potrebbero sviscerare.

No no, speriamo che Netflix si fermi finché è in tempo.

L'articolo Love & Anarchy: quando la normalità è una prigione proviene da Cleis Ende.

]]>
“Qualcuno deve morire”: l’omosessualità è solo la punta dell’iceberg https://www.cleisende.it/qualcuno-deve-morire-recensione/ Mon, 19 Oct 2020 14:31:28 +0000 https://www.cleisende.it/?p=766 Tutti coloro che parlano di “Qualcuno deve morire”, la miniserie Netflix uscita il 16 ottobre 2020, si concentrano sul tema dell’omosessualità nella Spagna di Franco....

L'articolo “Qualcuno deve morire”: l’omosessualità è solo la punta dell’iceberg proviene da Cleis Ende.

]]>
Tutti coloro che parlano di “Qualcuno deve morire”, la miniserie Netflix uscita il 16 ottobre 2020, si concentrano sul tema dell’omosessualità nella Spagna di Franco. L’attenzione dei più si è focalizzata sulle difficoltà di essere gay in una società fascista. Secondo me, è una lettura dell’opera riduttiva.

Il tema dell’omosessualità fa da motore alle vicende della miniserie ed è centrale, questo è vero. L’opera va però molto oltre e affronta i drammi di una società repressiva a tutto tondo.

La trama

“Qualcuno deve morire” (“Alguien tiene que morir” nella versione spagnola e “Someone has to die” titolo internazionale) è ambientata nella Spagna degli anni ‘50.

Per chi masticasse poco la storia, siamo nel pieno della dittatura fascista di Franco, durata dal 1936 al 1975. Tra le tante amenità che hanno caratterizzato questo regime, c’è stata anche una condanna feroce dell’omosessualità maschile e femminile. “La Spagna deve rimanere pura”, ripetono più volte alcuni personaggi della miniserie ed è stato effettivamente uno dei punti essenziali del regime.

Tornando alla miniserie, Gabino è il rampollo di una ricca famiglia spagnola. Il padre ha un incarico governativo e la madre è un’immigrata messicana, trasferitasi in Spagna per amore. La nonna è la matrona che porta avanti la casa in modo rigido, secondo i dettami della dittatura. Poco stupisce che Gabino non abbia una grande considerazione per la Spagna, dalla quale è scappato ormai da 10 anni per trasferirsi in Messico.

Tutto inizia quando l’ormai adulto Gabino ha la disgraziata idea di tornare in Spagna, anche se solo temporaneamente. Quel che è peggio, torna portando con sé un bellissimo ragazzo messicano, Lazaro.

I due sono molto legati, tant’è che hanno in programma un viaggio in Europa insieme, prima di tornare in Messico. In più, Lazaro è un ballerino di danza classica. Basta questo per bollare i due come omosessuali, con tutto ciò che ne può conseguire nella Spagna franchista.

Leggi anche: “La Tentazione”, il mio horror erotico

Omosessuale? No, “sensibile”

Gabino è effettivamente gay e questo lo si capisce fin dalle prime battute, specie quando entra in scena il vecchio amico Alonso. È chiaro che c’è stato qualcosa tra i due, prima che Gabino partisse, anche se Alonso fa di tutto per negarlo e tenerlo nascosto.

Scelta forse non così stupida, dato l’andazzo nel Paese.

Il problema non è solo con chi i personaggi vanno a letto o vorrebbero andare, però. Il problema è quanto si adattano al modello di uomo o donna promosso dalla dittatura. La storia non parla della difficoltà di essere gay sotto Franco. La storia parla della difficoltà di essere se stessi e “umani” sotto Franco.

In un contesto come quello della dittatura franchista, l’unico atteggiamento accettato è un asettico opportunismo. Non c’è spazio per i sentimenti, la sensibilità, l’amore. Gli uomini devono essere forti e pronti a tutto, pur di avere successo. Le donne devono essere silenziose ma subdole, pronte a sedurre i partiti migliori. Il matrimonio è uno strumento per connettere famiglie e dare nuove braccia alla Spagna, nient’altro.

L’omosessualità non trova spazio in una realtà del genere, è chiaro. L’uomo che sceglie un suo pari come compagno di vita è un debole, qualcuno incapace di imporsi sul partner com’è “normale” in un matrimonio eterosessuale. Peggio ancora, è qualcuno che ha deciso di anteporre i sentimenti all’opportunismo. L’unione omosessuale è infatti sterile e quindi fine a se stessa, portata avanti solo per amore.

Inaccettabile.

Tutti mentono

Gabino e Alonso sono i due personaggi che hanno di più da nascondere e da perdere, se il loro segreto venisse fuori. In generale, però, quasi tutti i personaggi principali mentono in qualche misura e ne pagano le conseguenze.

  • Gabino nasconde la sua omosessualità stando lontano dalla Spagna, nel ben più permissivo Messico. Purtroppo, non si può scappare per sempre, specie quando i soldi li tira fuori papà.
  • Alonso si è costruito un’immagine di uomo forte e cinico, soffocando quello che desidera davvero per sé.
  • Mina, la madre di Gabino, si è adattata al ruolo di moglie ed è morta pian piano dentro. Cerca di tenere accesa una fiammella di empatia e sensibilità, ma non ha il coraggio per ribellarsi al sistema e fare qualcosa di concreto per aiutare gli altri.

Gli unici personaggi che prosperano sono quelli che incarnano il sistema alla perfezione, almeno all’inizio: Amparo, la nonna di Gabino; Gregorio, il padre di Gabino; Cayetana, la sorella di Alonso. Sono tutti e tre personaggi cinici, freddi, che hanno sacrificato il proprio cuore all’altare della Patria. Non per nulla, sono anche gli antagonisti della storia, coloro che cercano di soffocare la spinta al cambiamento degli altri1.

E Lazaro?

Leggi anche: “Chi ha paura della sessualità bizzarra di Mellick?”

Lazaro, colui che traina il cambiamento

Lazaro è il personaggio che cambia meno nella miniserie e per un’ottima ragione: lui è il catalizzatore del cambiamento, colui che dà il via a tutto. Al contrario degli altri, è sensibile e non si vergogna di esserlo, tant’è che è un artista. Si rivolge agli altri con spontaneità, è leale con gli amici, cerca in tutti i modi di essere una brava persona.

Insomma, Lazaro rifiuta il modello di “uomo forte” che sta alla base della Spagna franchista.

Tanta sensibilità, tanto amore per il mondo non possono restare inosservati né impuniti. Lazaro attira subito l’attenzione di tutto il circolo sociale di Gabino e, ovviamente, dà il via a una cascata di malelingue. Chi vorrebbe cambiare, imparare a vivere per quello che è veramente, viene attratto da questa figura dalla bellezza così pura. Chi invece nel modello repressivo ci sta benissimo la prende subito in antipatia.

Ecco perché Lazaro non è parte del cambiamento, quanto il suo pretesto.

Il finale

Alla fine del primo episodio, ci rendiamo conto che Lazaro e Gabino non stanno insieme. Anzi, Lazaro è eterosessuale e l’amore che nutre per Gabino è puro e fortissimo, ma solo amicale. Ciò non toglie che le voci continuino a girare, tanto che Alfonso cerca di avvertire il vecchio amico a modo suo. Ovvero pestandolo a sangue.

Eh, gli amici veri.

Nel mentre, Lazaro sviluppa un mezzo intrallazzo con Mina. Le voci continuano e sfociano in una denuncia vera e propria; Gabino viene arrestato dal padre, mentre Lazaro riesce a scappare. Ciononostante, il ragazzo torna indietro per salvare l’amico. Qui va tutto in vacca.

Lui e Mina si trovano e decidono di scopare nel bosco del circolo di caccia frequentato da lei. Una visione chiara delle priorità, direi. Stranamente, vengono beccati da Cayetana che li denuncia al marito di lei. Strano, eppure sono stati così prudenti…

EDIT: Un commento su YouTube mi ha fatto notare che era tutto un piano per dimostrare che a Lazaro piacciono le donne, indi per cui non poteva avere una relazione con Gabino. Un piano vagamente demente, ma comunque una cosa voluta. Su quella cosa in particolare, il mio rant era ingiustificato.

L’accusa di omosessualità decade, dato che Lazaro ha dato prova di essere un vero uomo scopandosi la moglie del padre del suo presunto amante. Gregorio libera il figlio e lo porta ad ammazzare madre e amico. Gabino, stranamente, non è d’accordo.

La miniserie finisce con tutti che sparano a tutti e tutti che muoiono, tranne Gabino e la madre. L’ultima inquadratura si sofferma su loro che guardano Lazaro morto.

Bene.

C’è speranza? Non è chiaro

Il finale di “Qualcuno deve morire” mi ha delusa. L’ho trovato frettoloso, incapace di prendere una posizione chiara su quale dovrebbe essere il senso dell’opera.

Piccola digressione tecnica. Tutte le storie scritte bene hanno una sorta di “morale”: ne ho accennato anche nell’articolo dedicato alla biografia di Bettie Page. Non dev’essere per forza una morale positiva o un insegnamento; piuttosto, esprime la visione del mondo dell’autore. Lajos Egri parla di “premessa”, altri lo chiamano semplicemente “tema”. La sostanza non cambia.

Il problema è che la miniserie non trasmette una visione chiara del mondo, nel finale. Durante i tre episodi emergono il senso di claustrofobia dei personaggi, l’assenza di una speranza, la voglia di fuggire da un ambiente repressivo. Sul finale, c’è solo tanta confusione.

Sorvoliamo sul brillante piano di Lazaro e Mina, che faceva acqua da tutte le parti. Ad ogni modo, cosa mi dice il finale? Alla fine, c’è speranza per chi vuole vivere la propria vita? Oppure il mondo è in mano ai cinici, destinati a vincere e a schiacciare le anime più sensibili?

Boh? Muoiono tutti, sia i cinici sia i puri. Finisce tutto a colpi di pistolettate, senza che emerga un vero senso dalla storia. Peccato.


1 A onor del vero, anche Alonso è uno degli antagonisti per buona parte della storia. Data la sua omosessualità, è diviso tra la voglia di cambiare e il desiderio di soffocare il cambiamento altrui.

L'articolo “Qualcuno deve morire”: l’omosessualità è solo la punta dell’iceberg proviene da Cleis Ende.

]]>
No, Netflix non dovrebbe cancellare “Cuties” https://www.cleisende.it/netflix-cuties-recensione/ Tue, 22 Sep 2020 16:09:00 +0000 https://www.cleisende.it/?p=719 Quando ho visto per la prima volta il trailer di “Cuties”, film Netflix girato da Maimouna Doucouré, non avrei mai pensato di difenderlo. Il trailer...

L'articolo No, Netflix non dovrebbe cancellare “Cuties” proviene da Cleis Ende.

]]>
Quando ho visto per la prima volta il trailer di “Cuties”, film Netflix girato da Maimouna Doucouré, non avrei mai pensato di difenderlo. Il trailer parla infatti di una bambina di undici anni che insegue la propria passione per il ballo insieme a un gruppo di amiche, anche a costo di mettersi contro la propria famiglia.

Vestendosi come una ventenne e simulando rapporti sessuali a suon di musica.

Con queste premesse, l’incazzatura con cui è stato accolto il film è abbastanza comprensibile. Peccato che “Cuties” non parli di questo. Detta in soldoni, il trailer parla di un film che non esiste e ha fatto un pessimo servizio al vero film, spingendo la gente a invocarne la cancellazione prima ancora dell’uscita.

Il film esce nonostante tutto, le persone hanno modo di vedere di cosa parla davvero il film e, sorpresona, non cambia un tubo. Anzi, gli youtuber americani paiono essersi addirittura incattiviti. Avranno ragione?

Spoiler: secondo me no, anche se il film ha davvero delle grosse criticità e, secondo me, risulta meno controverso di quanto vorrebbe essere.

La trama

Appurato che non è la storia di un gruppo di amicone con la passione del ballo, di cosa parla davvero “Cuties”?

Il film inizia presentandoci Amy, undicenne di origini senegalesi trasferitasi da poco con la madre e i due fratellini. Il padre è rimasto in Senegal per motivi ignoti, che si scopriranno essere una seconda moglie che verrà a vivere con loro e con la prima moglie.

Per una serie di coincidenze Amy si imbatte nelle Cuties, un gruppo di coetanee aspiranti ballerine. Le quattro ragazzine si vestono come ventenni, aggrediscono i compagni di scuola fanno confusione al supermercato, bullizzano gli altri ragazzini e la stessa Amy. Eppure, la protagonista si innamora della loro indipendenza e delle loro sessioni di ballo.

Dopo un po’ di tira e molla, Amy entra a far parte del gruppo e inizia a ballare con loro. Inizia così il suo viaggio per emanciparsi dalle regole della famiglia, anche se le cose potrebbero non andare come crede lei…

Di cosa parla davvero “Cuties”

“Cuties” parla della vergine e della puttana, ovvero le due immagini di femminilità che ci vengono calate dall’alto fin da quando siamo bambine, e le condanna entrambe.

Da una parte, Amy subisce i dettami restrittivi della famiglia e della religione, che le impongono di mettere la sua femminilità al servizio dell’uomo come madre e moglie. Dall’altra, viene attratta dall’apparente libertà di chi mette in vetrina il proprio corpo, sia con vestiti succinti sia con atteggiamenti dalla forte connotazione sessuale.

Da una parte c’è la donna che sparisce sotto strati di veli e di vestiti. Dall’altra c’è la donna che sparisce sotto la propria stessa nudità.

Ben presto, Amy si rende conto che la libertà delle sue “amiche” è solo apparente. In realtà, seguono regole rigide come quelle provenienti dalla sua famiglia, spesso senza comprenderne le implicazioni. La ragazzina si trova così invischiata in una rete di errori sempre più gravi, nel tentativo inutile di uniformarsi e di farsi accettare dalle altre.

Paradossalmente (ma neanche troppo), il personaggio più positivo proviene proprio dall’ambiente repressivo in cui Amy è nata ed è quello della madre. Alla fine, sarà lei ad aiutare la figlia a trovare un proprio equilibrio e a tornare la bambina che a undici anni dovrebbe essere.

Come la condanna inizia fin dai primi minuti

Sapete qual è la cosa più ridicola di tutta questa storia? La gente che accusa “Cuties” di inneggiare alla pedopornografia. Il film è indubbiamente forte e ci sono scene che ho fatto una fatica fisica a guardare. È vero che certe persone potrebbero “fruire” di queste scene in modo diverso da quanto inteso dalla regista, un problema da tenere in considerazione.

Da qui ad accusare la regista di fare pedopornografia ne corre, però, specie perché l’intento è palese fin dai primi minuti.

Per andare avanti, devo annoiarvi con due concetti fondamentali per la creazione di una buona storia.

Il punto di vista del protagonista e quello dell’autore non sono la stessa cosa. L’autore non necessariamente concorda con la visione del mondo del protagonista e, anzi, qualche volta la condanna. Come si fa a capire cosa pensa davvero l’autore? Basta guardare cosa ci mostra e che direzione prende la storia.

I primi minuti del film servono a farti affezionare al protagonista, affinché tu prenda a cuore la sua sorte. In queste primissime scene, capisci da che parte devi stare.

Nei primi minuti di “Cuties”, la regista fa due cose:

  1. ci fa empatizzare con Amy, presentata come una bambina sensibile e volenterosa;
  2. spala merda sulle Cuties, che vediamo aggredire compagni di scuola, rubare e altre amenità.

Spiegatemi come si fa a pensare che la regista stia promuovendo un certo tipo di comportamenti, quando i personaggi che li incarnano sono presentati fin da subito in modo negativo. È vero, Amy ne subisce il fascino, ma noi spettatori veniamo messi in guarda molto chiaramente.

Una condanna… blanda?

La posizione della regista viene rinforzata dagli stessi personaggi adulti del film, unanimi nel condannare questi atteggiamenti. L’unica eccezione sono i giudici del concorso di ballo, che rappresentano la realtà deviata dello show business.

A voler essere del tutto sinceri, però, la regista è stata anche piuttosto blanda, sotto certi aspetti. Il film rappresenta una società con un approccio poco sano al sesso, approccio che cala dall’alto sulle nuove generazioni. Senza la guida degli adulti, queste assorbono la visione distorta in modo acritico e cercano di adeguarsi a modelli per loro incomprensibili, scimmiottando quello che vedono online.

Il punto è che non c’è una rappresentazione chiara di come le Cuties siano diventate così. Amy si è fatta trascinare a causa di problemi temporanei, che hanno spinto la madre ad essere assente. E le altre? Le altre sono figurine di cartone, prive di passato e di famiglia, a parte forse per Angelica. L’unico grande colpevole che emerge è una generica “società” rappresentata dai cellulari. E i genitori? E gli insegnanti?

Mi pare una condanna un po’ monca.

Leggi anche: “365 Days”: è ora di parlare del vero BDSM

È stato giusto usare delle bambine vere?

Risposta breve: no. Non credo che sia stata una grande idea, dato che ha esposto delle bambine reali alle attenzioni di predatori sessuali altrettanto reali. Qualche cospirazionista insinua addirittura che sia stato appositamente a favore dei predatori sessuali, il che è abbastanza ridicolo.

Tra l’altro, questa scelta ha reso il film vulnerabile agli attacchi che stiamo vedendo, mettendo in ombra la condanna portata avanti dal film. Tutti si concentrano sul fatto che delle undicenni vere hanno sbatacchiato il sedere di fronte a una telecamera. Nessuno pensa alle migliaia di undicenni che lo fanno con un pubblico minore ma potenzialmente più pericoloso, di nascosto dai genitori.

Quando il saggio indica la luna, gli youtuber guardano il dito. O forse non era proprio così.

Ad ogni modo, probabilmente il medium migliore sarebbe stato un cartone animato tipo “Undone” o qualcosa del genere. Per chi non lo avesse visto, questo piccolo capolavoro è stato realizzato usando il rotoscopio. Semplificando a mille, si parte da una pellicola filmata con una tecnica particolare e ci si disegna sopra.

Il cartone animato, anche se realizzato con il rotoscopio, avrebbe permesso di avere personaggi undicenni senza usare undicenni vere. Il problema è che realizzare un cartone animato costa davvero molto; è stata tipo la prima cosa che ci hanno insegnato al corso di sceneggiatura per l’animazione. Non ho quindi idea se la regista avesse i mezzi per raccontare questa storia usando il cartone animato.

Perché Netflix ha lavorato con il culo

Prima locandina di "Cuties"Certo che anche Netflix ci ha messo il suo, perché il film non era abbastanza problematico anche senza le loro minchiate.

Il problema del trailer è che ci mostra solo la condanna alle tradizioni repressive della famiglia di Amy. Delle Cuties, invece, fa vedere solo le scene di ballo e le battutine simpatiche. Sembra quindi che il film condanni la repressione sessuale, in favore di una sessualità allegra e disinibita. Che non sarebbe nemmeno un brutto messaggio, non fosse che le protagoniste hanno undici anni.

Il finale di “Cuties”

Scomodo il buon Victorlaszlo88, che in un suo video ha definito il finale di “Cuties” “didascalico”. Concordo con lui: il finale del film è didascalico e dà l’impressione di c’entrare poco con tutto il resto. Il punto è che non è un impressione: è davvero fuori luogo con il resto della storia.

Riassunto spoiler di Cuties

Per farti capire cosa intendo, faccio un passo indietro e ti spiego cosa succede dopo che Amy si unisce alle Cuties. In sostanza, inizia a combinare una stronzata dietro l’altra:

  1. ruba il cellulare al cugino;
  2. propone alle altre una coreografia che ha del pornografico;
  3. inizia a ignorare i fratellini e a disobbedire;
  4. prega le Cuties di non buttarla fuori, dopo che ha paccato le eliminatorie del concorso per sbaglio;
  5. ruba i risparmi della madre per arruffianarsi le altre con regali;
  6. inizia a vestirsi come le altre Cuties, se non peggio;
  7. si propone sessualmente al cugino cui aveva rubato il cellulare (che la manda a cagare);
  8. mette online una foto dei propri genitali, dopo la qual cosa le altre la buttano fuori dal gruppo e la madre la sottopone a una specie di esorcismo;
  9. scappa di casa, butta una delle altre Cuties in un canale e ne prende il posto al concorso.

Bene no. E come si sviluppa tutto questo, nel finale?

Una volta sul palco, Amy si sente in colpa e torna a casa. A casa, molla sia i vestiti da ballo sia l’abito tradizionale, vestendosi in modo un po’ più adulto rispetto all’inizio ma comunque sobrio. Dopodiché va a giocare con gli altri bambini per strada.

Potresti aver notato che, appunto, il cambiamento finale sembra un po’ improvviso. No, non ho saltato eventi chiave: Amy si comporta da testa di minchia proprio come descritto.

Il punto è che, probabilmente, il finale non doveva essere quello.

Con due atti, il terzo è in omaggio

Te la faccio semplicissima: se conosci un minimo di tecniche di sceneggiatura, verso metà film sai già come butta. Non puoi sapere esattamente come andrà a finire (si spera), ma pressapoco capisci che fine farà il protagonista.

In una buona sceneggiatura, il protagonista inizia a cambiare verso metà film. Il cambiamento non è ancora completo ed è difficoltoso – altrimenti sai che palle – ma ti permette di capire più o meno cosa ne sarà di lui alla fine.

Il cambiamento di Amy nella seconda parte del film è del tutto slegato dal cambiamento finale. Due minuti prima di salire su quel palco, Amy stava buttando una sua ex-amica in un canale. Prima ancora, stava pregando le altre Cuties di non piantarla in asso e di farla ballare con loro. E prima ancora, si stava proponendo sessualmente al cugino.

Il punto è che Amy non ha proprio capito un cazzo nel corso del film. Niente di niente. Nada. Niet. Quell’illuminazione finale è stata appiccicata con lo sputo, ecco perché sembra così fuori posto. Forse la regista non se la sentiva di far finire il film male come avrebbe dovuto. Forse i produttori non volevano un finale negativo.

Non lo so. So solo che quello non è il finale di “Cuties”, ma il terzo atto di un altro film appiccicato dopo i primi due.

Alla fine, com’è?

Nel finale (del cazzo) l’intento della regista è chiarissimo e le accuse splendono in tutto il loro ridicolo. Mi chiedo solo: il film vale davvero tutta questa attenzione, i boicottaggi, il crollo in borsa? Secondo me no, specie perché scandalizza ma si trattiene su molte cose.

La storia dà una rappresentazione semplicistica del problema, muovendosi sulla superficie delle cose. Sospetto che la regista avesse anche un po’ paura di mostrare la cattiveria reale di cui sono capaci i ragazzini. Per non parlare poi del finale.

Insomma, un film con una sceneggiatura mediocre, nonostante la regia di alto livello. Questo non significa che dovrebbe essere cancellato da Netflix.

Anche perché, altrimenti, del catalogo rimarrebbe ben poco.

L'articolo No, Netflix non dovrebbe cancellare “Cuties” proviene da Cleis Ende.

]]>
“365 Days”: è ora di parlare del vero BDSM https://www.cleisende.it/365-days-recensione/ Sun, 21 Jun 2020 13:47:43 +0000 https://www.cleisende.it/?p=692 Stamattina avevo voglia di guardarmi un film leggero, mentre lavoravo a maglia. Apro Netflix e tra i consigliati mi appare uno gnoccolone e il titolo...

L'articolo “365 Days”: è ora di parlare del vero BDSM proviene da Cleis Ende.

]]>
Stamattina avevo voglia di guardarmi un film leggero, mentre lavoravo a maglia. Apro Netflix e tra i consigliati mi appare uno gnoccolone e il titolo “365 Days“. Come resistere?

Clicco, leggo la trama, vedo che è il film in assoluto più visto in Italia. Incuriosita, clicco di nuovo e mi trovo di fronte a una vaccata epica, degna però di qualche riflessione.

La trama di “365 Days”

Massimo Torricelli è figlio di un boss mafioso siciliano ed è destinato a prendere le redini dell’impero paterno. Un giorno rimane coinvolto in una sparatoria, il padre muore e lui si salva per un pelo, diventando il nuovo boss.

Poco prima di svenire per le ferite, Massimo vede una misteriosa donna che si stava facendo gli affaracci suoi in spiaggia. Per qualche motivo ne diventa ossessionato, inizia a cercarla e la trova. Qui inizia il vero delirio.

La donna del mistero è Laura Biel, una bellissima donna d’affari polacca che sta vivendo una relazione difficile. A questo punto, cosa può fare Massimo? Farsi avanti? Mandarle regali costosi? Stalkerizzarla corteggiarla con passione? Niente di tutto questo: la fa rapire e la costringe a rimanere con lui per 365 giorni, nella speranza che lei si innamori.

Beh, tutto normale, no?

Un porno BDSM travestito da storia d’amore

Piccola premessa: il film è tratto da una serie di libri che non ho letto e che non ho idea di come sia. Per quanto ne so, i libri potrebbero essere bellissimi e appassionanti. Il film è un pornazzo BDSM travestito da storia d’amore, tra l’altro scritto molto peggio di un porno dichiarato come Alfie.

Tornando a stamattina, inizio a guardare il film e mi accorgo che i due attori – entrambi davvero belli – sono dei cani inascoltabili. Tempo dieci minuti, decido di chiudere e dedicarmi ad altro, ma qualcosa attira la mia attenzione: il nostro caro Massimo è sul suo aereo privato ed è nervoso.

Per stemperare la tensione, prende una hostess e si fa fare una pompa con tanto di ingoio.

Il tutto mostrato nei minimi dettagli.

Mancano solo le inquadrature dei genitali.

Metto in pausa e controllo se non ho di nuovo aperto PornHub per sbaglio. No, è proprio Netflix. Mollo il lavoro a maglia, torno indietro e riguardo: magari mi sono sbagliata. Eh no, sembra proprio la scena di un porno tagliata in modo da non far vedere il cazzo.

Un po’ eccitata e un po’ perplessa, riprendo a guardare. Massimo inizia a levarsi la camicia a ogni occasione; mi scordo il lavoro a maglia. Massimo lega Laura al letto e la fa guardare mentre si fa soddisfare da un’altra donna; mi scordo pure come mi chiamo.

Riesco solo a pensare che il culo di quel tizio è illegale e che lo sto guardando su Netflix, in tutto il suo splendore.

In tutto questo, la “trama” non è pervenuta. O meglio, mi piacerebbe che fosse così.

“Consenso”, il grande assente

Come già scritto altrove, non ho niente contro i porno e, se “365 Days” fosse un porno, sarei abbastanza soddisfatta. Il genere è proprio quello che piace a me: lui è un figone con addominali da paura e un culo che parla, determinato a prendersi quello che vuole in qualsiasi modo; lei è una ragazzina disobbediente che impara il valore della disciplina a colpi di nerchia.

Il problema è che non è un porno (dichiarato).

Questa dovrebbe essere una storia d’amore con tinte erotiche, il che è inquietante. Vediamo un tizio che rapisce una ragazza sconosciuta nella speranza che lei si innamori di lui, forse conquistata dalle molestie sessuali continue. Peggio ancora, vediamo una tizia che si innamora dell’uomo che l’ha rapita, “premiandolo” per aver fatto qualcosa di illegale e immorale.

La storia è sostanzialmente questa, con qualche inciucio mafioso sullo sfondo tanto per aggiungere colore. Un inno alla mancanza di consenso e alle relazioni disfunzionali, reso appetibile dagli attori bellissimi, dalle scene soft porno e dalla storia d’amore smielata.

Questo è il film più visto in Italia oggi su Netflix.

Portiamo il BDSM nelle scuole

Quando vedo Massimo legare Laura al letto con le gambe spalancate, mi eccito e penso che dovrei comprare anch’io una bella asta telescopica. Quando lo vedo sbattere Laura con un tappetino, capisco che è il suo atteggiamento dominante – e l’addominale scolpito – a renderlo eccitante, non il suo essere un soggetto pericoloso e abusivo.

Siamo sicuri che la cosa sia proprio chiara a tutti? Quante ragazzine ci sono là fuori pronte a cedere a soggetti poco raccomandabili, perché si sono eccitate guardando o leggendo “storie d’amore” del genere? Guardando alla mia adolescenza e alle vicende di alcune mie amiche, più di quanto mi piacerebbe ammettere.

Quindi che facciamo? Togliamo “365 Days” da Netflix e vietiamo tutte le storie del genere? No, la censura non è la risposta. La risposta vera è saltata fuori durante un TNG, il munch under 35 che per il momento si svolge online.

Non mi ricordo chi a un certo punto dice che bisognerebbe parlare di BDSM nelle scuole, magari invitando esperti come Ayzad per spiegarne le dinamiche. Sul momento mi oppongo: ragazzi, abbiamo problemi perfino a parlare del sesso “normale”, figuriamoci parlare di frustini e affini.

Avevo torto. Mi scuso con chiunque abbia detto quella cosa, perché aveva ragione lui e questo film lo dimostra.

I ragazzi e le ragazze hanno bisogno di strumenti per comprendere certe pulsioni, se mai si dovessero presentare. Devono capire che non c’è niente di male a fantasticare su uno gnoccolone pericoloso che ti rapisce, ti lega e ti scopa senza pietà, senza soffermarsi più di tanto sul consenso. Finché sono fantasie, va tutto bene. Il problema è quando inizi a cercare un corrispettivo dello gnoccolone in questione nella vita reale.

Ci sono modi sicuri per assecondare queste fantasie, tutti racchiusi sotto il grande ombrello del BDSM. Non serve buttarsi in relazioni disfunzionali, nella speranza di trovare il Massimo di turno che scateni le cascate del Niagara. Basta ammettere a te stesso che sì, ti piace essere maltrattato a letto, andare a un munch, parlare con un po’ di persone e trovarne una che ti piace.

Là fuori è pieno di bravi ragazzi che rispettano le donne, le ascoltano e, se queste vogliono, le legano al letto e le disciplinano a colpi di nerchia. O si fanno disciplinare, a seconda dei gusti.

Basta solo sapere che esistono e lasciar perdere i bulletti.

L'articolo “365 Days”: è ora di parlare del vero BDSM proviene da Cleis Ende.

]]>
Il regista nudo: storia del porno giapponese in 8 episodi https://www.cleisende.it/regista-nudo-storia-porno-giapponese/ Sun, 10 Nov 2019 15:18:41 +0000 https://www.cleisende.it/?p=427 Con “Il Regista Nudo” (“The Naked Director”) Netflix apre una finestra sulla difficile storia del porno giapponese e su come è diventato quello che è...

L'articolo Il regista nudo: storia del porno giapponese in 8 episodi proviene da Cleis Ende.

]]>
Con “Il Regista Nudo” (“The Naked Director”) Netflix apre una finestra sulla difficile storia del porno giapponese e su come è diventato quello che è oggi


Ho iniziato a guardare The Naked Director a fine estate, con la porta finestra ben aperta per far girare un po’ l’aria. La porta che dà sul terrazzo che ho in comune con la vicina, per essere precisa. A un certo punto, Mela mi ha fatto gentilmente notare che i vicini avrebbero potuto pensare un po’ male? Perché? Perché la storia (e l’audio) del telefilm gira tutto attorno alla rivoluzione del porno in Giappone.

La trama di The Naked Director

Siamo nel Giappone degli anni ‘80. Toru Muranishi è un venditore di enciclopedie ed è un po’… come dire… un po’ (tanto) sfigato. Deve mantenere madre rompicoglioni, moglie fredda e figli. Dopo un periodo di agio economico, ha perso il lavoro ed è rimasto appiedato. La moglie gli fa le corna perché lui non è abbastanza bravo e non è mai riuscito a darle un orgasmo..

Potrebbe andare peggio. Potrebbe piovere.

Desideroso di rivalsa, Muranishi si allea con lo spacciatore di video hotToshi e si butta nello strano mondo del porno giapponese. Il suo sogno è aiutare uomini e donne a spogliarsi delle inibizioni, affinché possano godere del sesso in maniera libera. In che modo? Andando contro la censura imposta sul materiale per adulti e offrendo porno – prima riviste, poi video – reali.

Così facendo, rischia però di mettersi contro i poteri forti del mercato adult giapponese.

Censura senza pietà (e senso)

Il protagonista di "The Naked Director"In che senso porno “reali”? Chiunque abbia letto un hentai conosce bene le striscette nere piazzate in punti “strategici”, come lungo la vagina o sul frenulo del pene1. Le strisce sono una forma di censura che si trova anche negli anime pornografici e perfino nei live action. In questi ultimi si preferisce coprire i genitali con zone pixelate, ma il concetto è sempre lo stesso.

La ragione di questa stranezza è semplice: l’articolo 175 del Codice Civile giapponese vieta la diffusione di materiale “osceno”. Una formulazione come minimo ambigua, che diventa più o meno restrittiva a seconda del periodo storico. Nel periodo in cui è ambientato questo telefilm, perfino il buon Mellick III avrebbe avuto qualche problema, secondo me.

In generale, i giapponesi considerano accettabile tutte le immagini in cui non si vedono genitali2.

L’articolo 175 è ciò su cui si basa “Il Regista Nudo”. Oggi i pixel sono quasi trasparenti e coprono porzioni minime dei genitali. Negli anni ‘80, erano così grandi che tanti attori facevano sesso solo per finta. Il nostro buon regista, disgustato da tanta ipocrisia, comincia quindi a distribuire porno con sesso reale.

Un protagonista (troppo poco) problematico

Shinnosuke Mitsushima nel ruolo di Toshi AraiIl Toru Muranishi di “The Naked Director” è troppo “perfetto”, almeno per gli standard della storia. Nel primo episodio, ha un difetto che può rivelarsi fatale: è troppo inibito. A causa di questo, non sa come parlare con i clienti, si fa maltrattare dalla madre e non ha dialogo con la moglie. Se non risolverà questo problema, farà una brutta fine.

Ottimo materiale per un protagonista, non fosse che entro la fine dell’episodio 2 è già tutto risolto.

Muranishi non è un santo, sia chiaro: se la fa con la criminalità organizzata giapponese e non ascolta i propri collaboratori. Nel corso della storia, paga questa testardaggine molto cara. Eppure, non cambia di una virgola e continua imperterrito per la propria strada: sembra più un martire che una persona normale. Questo rende difficile provare empatia per lui o preoccuparsi per il suo destino.

La vera forza del telefilm sono i personaggi secondari, loro sì mutevoli. Mentre Muranishi rimane sempre uguale – cosa che gli altri gli fanno spesso notare – il mondo intorno a lui si adatta ai suoi ideali. È come se il regista fungesse da catalizzatore per i collaboratori, smascherandone le ipocrisie e aiutandoli a trovare il loro vero io.

Chi era davvero Toru Muranishi?

Il vero Toru Muranishi con la pornostar Kaoru KurokiSorpresa sorpresa, “Il Regista Nudo” è tratto da una storia vera. Il vero Toru Muranishi è stato il fondatore di uno stile quasi documentaristico di porno, ancora oggi popolare in Giappone. Peccato che sia stato anche sette volte in galera per problemi con la 175, per aver girato video porno con minorenni e altre amenità del genere. Un personaggio interessante, non c’è dubbio.

Neanche a dirlo, la vera carriera di Muranishi è stata meno romantica di quanto presentato nel telefilm. Nel 1984, Muranishi entrò nella neonata Crystal-Eizou, per la quale cominciò a girare film porno. In questi anni lanciò la pornostar Kaoru Kuroki e girò diverse serie pornografiche satiriche. Si fece arrestare, uscì di galera e ci ritornò un anno dopo. Ormai la cella aveva le porte girevoli.

Nel 1988, Muranishi fondò la propria compagnia, la Diamond Visual. L’azienda divenne la più importante compagnia adult del Giappone e qui mi fermo: sia mai che faccio qualche spoiler sulla seconda stagione. Ad ogni modo, il vero Muranishi pare essere stato un imprenditore a proprio modo brillante, anche se non proprio il martire della libertà presentato nel telefilm.

Le vicende di Muranishi sono un pretesto per raccontare la rivoluzione sessuale in Giappone, con tutte le sue luci e ombre. Che ne penso, quindi? “Il Regista Nudo” è senza dubbio interessante. Anche se la serie è godibile, sono però convinta che sarebbe potuta essere di gran lunga migliore.


1 Che poi io questa cosa non l’ho mai capita: cosa hanno il frenulo o l’uretra rispetto ad asta e glande? Boh?

2 Capito perché gli hentai sono pieni di tentacoli, banane e amenità del genere?

L'articolo Il regista nudo: storia del porno giapponese in 8 episodi proviene da Cleis Ende.

]]>
“La scandalosa vita di Bettie Page”: ritratto inconcludente di un’icona https://www.cleisende.it/scandalosa-vita-bettie-page/ Thu, 04 Jul 2019 09:19:19 +0000 https://www.cleisende.it/?p=316 “La scandalosa vita di Bettie Page” è un film biografico dedicato alla pin-up icona. Nonostante le tante buone intenzioni, la sostanza è pochina Quando si...

L'articolo “La scandalosa vita di Bettie Page”: ritratto inconcludente di un’icona proviene da Cleis Ende.

]]>
“La scandalosa vita di Bettie Page” è un film biografico dedicato alla pin-up icona. Nonostante le tante buone intenzioni, la sostanza è pochina


Quando si parla di bondage vintage, si parla di Bettie Page. Bettie era più di una modella fetish: era un simbolo di libertà sessuale. Si metteva in posa senza inutili pudori, regalando all’obiettivo il sorriso contagioso di chi sta bene con il proprio corpo. In un periodo caratterizzato da bigottismo e chiusura mentale come gli anni ‘50, era una boccata di aria fresca.

La scandalosa vita di Bettie Page” (“The notorious Bettie Page”), diretto da Mary Harron, cerca di ritrarre la donna dietro l’icona. Purtroppo il tentativo fallisce miseramente.

Trama di “La scandalosa vita di Bettie Page”

Il film segue circa metà della vita di Bettie Page, dall’infanzia segnata dagli abusi del padre fino all’abbandono della carriera da modella. Dal punto di vista biografico, il film è abbastanza preciso e racconta tutti gli episodi più importanti. Verso l’inizio, vediamo anche lo stupro di gruppo di cui la pin-up fu vittima negli anni ‘40.

La narrazione segue due linee temporali: il passato di Bettie si intervalla con le scene di lei in tribunale nel 1955, chiamata a testimoniare contro il suo capo Irving Klaw. L’uomo è infatti nei guai a causa di alcune foto “pornografiche”, molte delle quali ritraenti Bettie Page stessa. Negli ultimi minuti del film, le due linee temporali convergono e portano al finale: nonostante abbia atteso pazientemente per 12 ore, Bettie viene mandata via senza essere ascoltata.

Dopo il disastroso processo a Irving Klaw, sembra tutto perduto per Bettie: la scure della censura è calata sul suo mondo. L’ultimo dell’anno, però, Bettie entra in una chiesa e ritrova la fede in Dio. Nelle ultime scene del film la vediamo intenta a predicare per strada. Un uomo la ferma e i due parlano della sua carriera di modella, della quale lei non è né pentita né imbarazzata.

Vita dura per gli amanti del bondage

Una foto fetish di Bettie Page
Mi sento buona e parto con gli aspetti più interessanti di “La scandalosa vita di Bettie Page”. Soprattutto nella seconda parte, il film si concentra sulla fiorente industria delle foto fetish negli anni ‘50. La vita di noi poveri pervertiti era dura a quel tempo: internet era fantascienza e la pornografia era proibita in generale. Figuriamoci quella di stampo BDSM, poi.

Irving Klaw aveva fondato il proprio business su queste restrizioni, come un novello contrabbandiere d’alcool durante il Proibizionismo. La sua agenzia vendeva foto su commissione, molte delle quali con una chiara impronta fetish. Nelle foto non c’era traccia di nudità completa né tanto meno di atti sessuali. Molti dei video riproducevano scene prese da film, sostituendo i personaggi originali con belle ragazze in biancheria intima. Un affare a prova di bomba, insomma.

Il buon Irving non aveva fatto i conti con una cosa: se i potenti ce l’hanno con te o con quello che rappresenti, troveranno sempre una scusa per fregarti. La Commissione sulla Delinquenza Giovanile collegò le foto di bondage di Inving a un caso di suicidio. A causa di questo l’uomo finì in tribunale e buona parte del suo lavoro venne bruciato. Le foto di Bettie si salvarono solo grazie alla sorella Paula Klaw, che le nascose perfino al fratello.

Tutto questo viene mostrato abbastanza bene nel film, dandoci un’idea di quale fosse il clima a quel tempo.

Confronto con “La vera vita di Bettie Page”

Nel 2012, qualche anno dopo il film, uscì il documentario “La vera vita di Bettie Page” (in originale “Bettie Page Reveals All”). In questo caso abbiamo la voce di Bettie Page in sottofondo a raccontare alcuni dei punti salienti della sua vita. Il tutto è accompagnato da immagini dell’epoca e testimonianze di chi la conosceva.

Nella seconda parte del documentario, verso la fine, scopriamo anche cosa ne pensava Bettie del film:

Lies, lies, lies! L-I-E-S! Why don’t you tell the truth? (Bugie, bugie, bugie! Perché non dite la verità?)

Pare chiaro che il film non l’avesse elettrizzata (e come darle torto). Ad onor del vero, però, “La scandalosa vita di Bettie Page” non pare discostarsi così tanto da quello raccontato nel documentario. Entrambe le opere restituiscono l’immagine di una Bettie spregiudicata e allegra, che amava il proprio corpo e non si faceva problemi a mostrarlo. Se la realtà dei fatti era diversa, allora sono state entrambe le opere a fallire.

I problemi sono ben altri, come vedremo nel prossimo paragrafo.

Rispetto al film, il documentario si muove un po’ più in avanti negli anni. Dopo l’uscita dalle scene, Bettie sparì e non se ne seppe più niente. Si sapeva che aveva ritrovato la fede, ma non molto di più. Purtroppo la triste vecchiaia di Bettie Page venne fuori solo dopo l’uscita del film, all’uscita del documentario. La ex modella iniziò a manifestare i primi sintomi di schizofrenia paranoide e passo 10 anni in ospedale psichiatrico.

Perché il film non funziona

Scena tratta da The Notorious Bettie Page
Per spiegare che cosa non va nel film, devo fare una premessa su come si struttura una storia.

Tutte le storie, libri o film, hanno un tema di fondo che funge da filo rosso. Non è necessariamente una morale o un insegnamento; è più che altro il punto di vista dell’autore sulle vicende. Gli spettatori normali1 non percepiscono questo filo rosso ed è giusto così: non dev’essere buttato in faccia a chi guarda. Eppure quando manca si sente la differenza: la storia si sfalda e perde consistenza.

Il problema dei film biografici è che si basano su storie prive di un tema di fondo, dato che la vita non ha un senso intrinseco2. Un buon sceneggiatore dovrebbe quindi aggiungere il proprio punto di vista, scegliendo cosa mostrare e come in base a quello che vuole dire. Non dare un punto di vista non è una scelta: le storie ci piacciono proprio perché hanno un senso, anche quando non sapremmo metterlo a parole.

Manco a dirlo, nella sceneggiatura di “La scandalosa vita di Bettie Pagemanca totalmente questo filo rosso.

Soprattutto all’inizio, il film butta dentro tante scene slegate per ricostruire la vita di Bettie nel modo più fedele possibile. Si tratta di un approccio a mio vedere abbastanza vigliacco: tutti i film biografici di qualità si prendono il rischio di cambiare o saltare qualcosa. Sarà brutto a dirsi, ma è l’unico modo per ottenere un buon film, che trasmetta un punto di vista sulla persona di cui parla. In questo film non succede e il risultato è sotto l’occhio di tutti.

In conclusione, consiglio la visione del film solo a chi vuole farsi un’idea di come funzionasse la fotografia erotica negli anni ‘50. Per il resto, è evitabile.


1 Quelli che non hanno mai studiato sceneggiatura, non quelli che non amano i frustini. Io non sono normale in nessuno dei due sensi.

2 O ce l’ha e noi non lo vediamo. Scegli l’opzione che preferisci.

L'articolo “La scandalosa vita di Bettie Page”: ritratto inconcludente di un’icona proviene da Cleis Ende.

]]>