Recensioni - Cleis Ende http://www.cleisende.it/recensioni/ Parole sporche Tue, 11 May 2021 16:57:16 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.8.3 https://www.cleisende.it/wp-content/uploads/2020/11/cropped-Icona-CleisEnde-1-32x32.jpg Recensioni - Cleis Ende http://www.cleisende.it/recensioni/ 32 32 Sexify di Netflix, come (NON) parlare di orgasmo femminile https://www.cleisende.it/sexify-netflix-recensione/ Tue, 11 May 2021 16:57:09 +0000 https://www.cleisende.it/?p=891 Sexify”, la nuova serie polacca di Netflix, vorrebbe parlare di orgasmo e di imprenditoria femminile, entrambe tematiche interessanti. Di fatto, non riesce a fare nessuna...

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Sexify”, la nuova serie polacca di Netflix, vorrebbe parlare di orgasmo e di imprenditoria femminile, entrambe tematiche interessanti. Di fatto, non riesce a fare nessuna delle due cose.

Dovrei piantarla di farmi del male così e lasciare il compito al buon Mela: mi darebbe sicuramente più soddisfazioni. Eppure continuo imperterrita a guardare telefilm di dubbia qualità, che si preannunciano imbarazzanti fin dai primi episodi. Chissà, magari spero in un colpo di scena a metà stagione che mi faccia cambiare idea; oppure sono più masochista di quanto non mi piaccia ammettere.

Tutto questo pippone per dire che “Sexify” fa cagare su tutta la linea: struttura della storia, contenuti, messaggio finale. Davvero, una Caporetto del telefilm al femminile. Vediamo di tirarne fuori qualcosa di buono.

La trama

Dio santo, le premesse non erano nemmeno malvagie.

Natalia è una studentessa di informatica che sta lavorando a una app per ottimizzare il sonno, da presentare a un concorso universitario che mette in palio un sostanzioso finanziamento. Peccato che il professore bocci la sua idea e la metta di fronte a una scelta:

  • unirsi al progetto di un altro gruppo, ma Natalia è del tutto incapace di socializzare, se non proprio nello spettro autistico;
  • lavorare a una nuova app, ma mancano solo 3 mesi al concorso.

Insomma, la nostra protagonista è in merda.

Dopo un tentativo fallimentare di unirsi al progetto di un compagno di corso, Natalia decide di convertire la sua app sul sonno in una app per ottimizzare l’orgasmo femminile. Sarebbe anche una bella idea, non fosse che lei è vergine e probabilmente asessuale.

Ad aiutarla nell’impresa ci saranno la sua migliore amica Paulina e la figlia di papà Monica. La prima sta insieme a un uomo che non sa nemmeno cosa significhi la parola “preliminare”. La seconda scopa come un riccio, ma riesce a venire solo se pensa al suo ex. Il terzetto delle meraviglie.

Si può sapere di cosa parla “Sexify”?

E tu mi dirai: “ma non l’hai scritto sopra?” Ni: sopra ti ho esposto la trama di “Sexify”, ma qui sto parlando del tema della storia, il filo rosso che unisce tutte le mirabolanti avventure di protagonista e coprotagoniste. Non dev’essere niente di particolarmente profondo, basta che ci sia: serve a rendere la narrazione organica, non a svelarti il senso della vita.

In una storia scritta come si deve, il protagonista ha un difetto fatale in linea con il tema scelto (ne parlo anche nella recensione di “Ho imparato a odiarti”). Non è l’unico difetto che ha, sia chiaro, ma è l’unico rilevante ai fini della trama. Se non sarà in grado di superare quel difetto, infatti, non riuscirà ad affrontare le sfide che gli si presentano davanti e perderà per sempre qualcosa di importante. In questo modo tutta la vicenda verte su questo tema e dimostra il punto di vista dell’autore a riguardo. Se il tema non è chiaro, è improbabile che il difetto del protagonista lo sia: sono due cose strettamente legate.

Se nella storia ci sono un protagonista con dei coprotagonisti, come in questo caso, ciascuno di essi incarna una variante dello stesso difetto fatale. Questo è importante per mantenere la narrazione coerente e organica.

Spesso lo spettatore non si rende nemmeno conto dell’esistenza di questo filo rosso, ma si accorge fin troppo bene della sua mancanza: la storia non va da nessuna parte e non se ne capisce il punto, i protagonisti sono superficiali, il finale è stupido… Sono le rimostranze tipiche, in questi casi.

Quale problema devono risolvere le protagoniste?

Di cosa parla “Sexify”, quindi? In teoria, basterebbe trovare il difetto fatale delle protagoniste per capirlo. In teoria.

All’inizio, pensavo che fosse l’importanza di imparare a comunicare: Natalia è incapace di interagire con gli altri, appunto, quindi sarebbe un difetto fatale perfetto per lei. Anche Paulina ha dei seri problemi di comunicazione con il compagno. Inutile specificare quanto si sposi bene con la questione dell’orgasmo femminile.

Il tema della comunicazione emerge anche con Monica, soprattutto in alcuni dialoghi con la madre. Ciononostante, non so quanto si applichi bene a lei.

All’inizio della storia, Monica non frequenta l’università, il padre le ha appena tagliato i fondi, scopa con chiunque per noia. A occhio, sembrerebbe una persona che non ha ben chiaro cosa vuole fare della propria vita, più che una persona incapace di comunicare.

Man mano che la storia va avanti, il focus inizia a ballare ancora di più: il tema della comunicazione sparisce, di fatto. Sembra che il telefilm si concentri soprattutto sull’importanza di conoscersi e di seguire la propria strada, anche quando è diversa da quella che vorrebbero gli altri. Si adegua alla vicenda di Monica, insomma.

Il tema in questione non sarebbe nemmeno male, intendiamoci, e potrebbe essere in linea con le vicende di Paulina. Ci sono due problemi, però:

  • sarebbe dovuto essere centrale fin dall’inizio per tutte, non cicciare fuori a metà stagione;
  • non c’entra un tubo con Natalia, almeno per buona parte del telefilm.

Una protagonista che non agisce

Natalia è un personaggio privo di una direzione e si vede: agisce poco e, quelle poche volte che lo fa, non ottiene niente. Ben presto la storia finisce in mano alle due coprotagoniste, in particolare a Monica. È quest’ultima che trova la “soluzione” per la app, che la mette in atto, che le prepara un pacchetto accattivante. Natalia si limita quasi sempre a seguirla.

Il problema di Natalia è che ha un mucchio di difetti, ma non un unico difetto fatale. Come detto sopra, il protagonista dovrebbe avere un difetto che spicca su tutti gli altri da risolvere. Natalia ha problemi di comunicazione, non conosce il proprio corpo e non ha ben chiaro cosa vuole, è troppo influenzata da ciò che la società vorrebbe da lei, è incapace di collaborare. Ciascuna di queste cose le mette i bastoni tra le ruote e rischia di farla fallire, ma nessuna si delinea come IL problema da risolvere.

Ovvio che non si capisca un tubo!

Verso la fine il suo personaggio trova pressapoco una direzione, adeguandosi a quella presa dalle altre e aperta da Monica. Lo fa dopo aver passato tutto il telefilm girando a caso e senza cambiare (ovviamente, perché come dai un arco di trasformazione a un personaggio senza un difetto fatale?). Sarebbe stato già abbastanza brutto per un personaggio secondario, ma è inaccettabile per un protagonista, che dovrebbe essere il motore della storia.

Il clitoride, il grande assente

Ottimo, abbiamo demolito “Sexify” sul fronte della scrittura. Passiamo al resto.

Senza fare spoiler, alla fine il telefilm pare volersi concentrare sull’importanza di conoscersi e di trovare una propria dimensione, indipendentemente da quello che vogliono gli altri. Non solo il tema spunta fuori verso la fine – e no, non basta un monologo appassionato della protagonista per renderlo il vero tema del telefilm – ma è in aperta contraddizione con buona parte di ciò che vediamo.

Parliamo di orgasmo femminile, no? Sapete chi è il grande assente, in tutto questo? Il clitoride, dio santo, il clitoride! Si calcola che più dell’80% delle donne non riesca ad avere un orgasmo senza la stimolazione del clitoride, punto percentuale in più o in meno. Eppure, in un telefilm che vorrebbe parlare di orgasmo femminile, questo viene citato a dir tanto tre volte e solo di sfuggita.

Si cerca la chiave universale del piacere e si dimentica il cazzo di passepartout che abbiamo in mezzo alle gambe!

In “Sexify” il piacere femminile è sempre trattato in relazione alla penetrazione, in linea con i peggiori stereotipi da film porno mainstream. E no, non è la visione iniziale che verrà poi contraddetta dai fatti: dall’inizio alla fine, l’orgasmo femminile è quella cosa che avviene con un partner e mediante penetrazione. La masturbazione viene trattata solo di sfuggita e quasi sempre in termini negativi.

Con buona pace del “seguire altre strade”, “conoscere te stessa” e queste cose qui. Complimenti.

Asessualità, il grande sconosciuto

La peggiore contraddizione a quello che vorrebbe essere il messaggio finale, però, arriva da Natalia. La nostra cara Natalia è asessuale, è evidente: non si masturba, non le interessa il sesso, non prova alcun tipo di eccitazione neanche quando è fatta fino alla punta dei capelli. Non è una persona inibita come Paulina: non gliene frega proprio niente.

Sarebbe stato un aspetto interessantissimo da esplorare, specie in linea con il “conosci te stessa e fai il cazzo che vuoi”. Si sarebbe potuto costruire un arco nel quale lei cercava disperatamente di interessarsi al sesso, fino a prendere atto della propria asessualità e abbracciarla. Ci ho (ingenuamente) sperato fino alla fine.

Che povera illusa.

In realtà, alla fine del telefilm Natalia si butta sul classico “non conosco me stessa e non so come comunicarlo”, presentando la app come la soluzione al problema. Insomma, la ciliegina su una torta di merda.

Devo anche specificare che non vi consiglio la visione di “Sexify”?

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Recensione di “Ho imparato a odiarti”: il mistero del protagonista scomparso https://www.cleisende.it/recensione-ho-imparato-a-odiarti/ Thu, 22 Apr 2021 16:59:28 +0000 https://www.cleisende.it/?p=877 “Ho imparato a odiarti” di Vi Keeland e Penelope Ward (“Hate notes”, in originale) è il classico romance con due punti di vista e due...

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“Ho imparato a odiarti” di Vi Keeland e Penelope Ward (“Hate notes”, in originale) è il classico romance con due punti di vista e due protagonisti. In apparenza. In realtà, il protagonista è uno solo

La mia recensione di “Ho imparato a odiarti” non è del tutto negativa ma nemmeno positiva, metto subito le mani avanti. In linea con la policy del blog, avrei dovuto metterlo da parte e fare finta di niente, eppure eccomi qua: perché?

Nonostante i tanti difetti, questo romance ha avuto un ottimo riscontro da parte del pubblico italiano e straniero. A mio dire, buona parte del merito va all’inizio e a una delle due linee narrative, ovvero quella del protagonista maschile Reed. Giocando con questi due elementi, le autrici sono riuscite a compensare una protagonista femminile poco coinvolgente come Charlotte.

Andiamo più nel dettaglio.

Di cosa parla “Ho imparato a odiarti”

Il romanzo inizia con la ventottenne Charlotte alla canna del gas: ha scoperto che il fidanzato la tradiva, l’ha mollato a un passo dall’altare, si è dovuta licenziare (perché ovviamente lavorava con l’ex), è rimasta senza un soldo.

Pacchetto completo, insomma.

Mentre cerca di rivendere il vestito da sposa, trova un abito stupendo con un biglietto azzurro all’interno. Il biglietto è scritto da un tale Reed ed è dedicato ad Allison, probabilmente la ex proprietaria del vestito. Charlotte rimane folgorata dal romanticismo che trasuda dal biglietto, tanto che cerca l’autore online. Lo trova e scopre che lavora per un’importante agenzia immobiliare. Ed è single.

Adesso non resta che trovare un modo per incontrarlo.

Due protagonisti con i quali empatizzare

L’inizio di “Ho imparato a odiarti” ha un enorme pregio: ti mette dalla parte di entrambi i protagonisti. Charlotte emerge fin da subito come una brava ragazza, forse un po’ troppo impulsiva, che però non merita ciò che le sta capitando. Insomma, la ragazza ci viene presentata come una brava persona presa a calci dalla vita, il che suscita in noi tenerezza e voglia di vederla vincere.

Come si suol dire: la prima impressione è tutto.

Non vediamo subito Reed, ma sembra un ragazzo romantico e innamorato, probabilmente mollato sull’altare per colpe non sue. O almeno questo crede Charlotte, contagiando noi lettori con questa convinzione. Non è molto, ma è comunque meglio di niente: nel primo incontro con Charlotte, infatti, Reed si comporta un po’ da stronzo.

Se avessimo visto prima lo stronzo e poi l’uomo romantico, sarebbe stato più difficile prendere a cuore la sua sorte.

I cambiamenti di Reed e l’immobilità di Charlotte

I problemi iniziano (o meglio, diventano evidenti) dopo il primo incontro tra i due. Charlotte fissa un appuntamento per visitare un loft che non può permettersi, presa dalla curiosità. Reed capisce subito che è lì solo per curiosare, quindi la umilia e la accusa di voler far perdere tempo alla gente che lavora. Lei scoppia a piangere e scappa in bagno.

Qui le cose precipitano.

In bagno, Charlotte incontra una simpatica signora di nome Iris che l’ascolta sfogarsi. Signora che si scopre essere la proprietaria dell’agenzia e la nonna di Reed, nonché l’emissaria del messaggio del romanzo: “segui le tue passioni fregandotene di quello che pensa il mondo”. Iris, questo è il suo nome, porta il messaggio prima a Charlotte e poi a Reed, ma i due reagiscono in modo diverso.

Reed si comporta da protagonista, per così dire: sulle prime bolla il consiglio come una cazzata, facendo di tutto per andare avanti con la propria vita. Man mano che la storia va avanti, si convince della bontà del consiglio della nonna e inizia a cambiare, finché questo cambiamento non lo porta al lieto fine. Noi lettori lo seguiamo lungo il percorso, facendo il tifo per lui e soffrendo insieme a lui, quando le cose vanno male.

Per Charlotte è diverso. Nel corso del romanzo, dichiara più volte di essersi annullata mentre stava con il suo ex. Non abbiamo motivo per non crederle. Nel corso della storia, però, fa tutto tranne che annullare i propri desideri: già prima dell’incontro con Iris, Charlotte si è portata a casa un abito da sposa inutile e ha messo su una sceneggiata per vedere l’autore del biglietto, entrambe decisioni prese sull’onda della passione. Il cambiamento c’è stato, ma precede l’inizio del romanzo.

Il fatto che Charlotte non cambi lungo la storia non sarebbe necessariamente un problema, anche se rende più difficile legarsi a lei. In teoria, sarebbe potuta essere una di quei protagonisti che funge da catalizzatore, spingendo gli altri personaggi a cambiare.

No, il problema è un altro: Charlotte non ha niente da perdere.

Perché Charlotte non è una vera protagonista

L’inizio serve per farci affezionare ai protagonisti, ma è inutile senza una posta in gioco. Affinché la storia sia davvero appassionante, i protagonisti devono avere una posta in gioco, ovvero qualcosa che rischiano di perdere. Non dev’essere necessariamente questione di vita o di morte, ma dev’essere importante per loro e difficile da ottenere. In “Ho imparato a odiarti”, l’unico ad avere una vera posta in gioco è Reed.

Reed viene fin da subito mostrato come un uomo che vive solo per il lavoro, che ha rinunciato a tutte le cose belle della vita. All’inizio non sappiamo cos’è successo con Allison, ma è stato chiaramente doloroso. Quando Charlotte entra nella sua vita, fa di tutto per tirarlo fuori dal guscio che si è costruito e lui, ovviamente, sulle prime fa resistenza.

Noi lettori capiamo subito che la vera posta in gioco non è la storia con Charlotte, ma una vita piena di amore e di gioia. Se Reed rifiuterà i sentimenti che prova per Charlotte, si chiuderà definitivamente in se stesso e non ne uscirà più. Questa consapevolezza ci mette in ansia per lui, spingendoci ad andare avanti nella storia.

E Charlotte?

Charlotte non ha niente da perdere, o così sembra. Se dovesse andare male con Reed, si leccherà le ferite e andrà avanti per la propria strada: ce lo dimostra più volte. Il lavoro offerto da Iris è ben pagato, ma non è il lavoro dei sogni: se dovesse perderlo, ne troverà un altro. Inoltre, le autrici ci fanno sapere che sia Reed sia la nonna sia il fratello di lui si prodigherebbero per cercale un altro lavoro.

Meglio per lei, ci mancherebbe, però questo rende la sua parte della vicenda molto meno interessante. Di fatto, la storia avrebbe funzionato anche senza il suo punto di vista, a parte per l’inizio. Il suo unico compito è innescare il cambiamento di Reed. Per carità, non c’è niente di male, ma è un po’ poco per un protagonista.

La “posta in gioco” di Charlotte (Spoiler)

Chi ha letto il romanzo potrebbe replicare che, non fosse stato per il rapporto con Reed, Charlotte non avrebbe mai trovato la madre prima che questa morisse. Vero, ma c’entra poco con il concetto della posta in gioco.

Reed si mette a cercare la madre di Charlotte per conto suo, senza chiederle niente. Quando la trova, Charlotte lo segue senza protestare né esitare. Il ritrovamento della donna non dipende dalle azioni di Charlotte, quindi, quanto da una buona dose di fortuna. Inoltre, il tutto avviene verso la fine: i lettori non sviluppano alcuna tensione nel corso del romanzo, che dovrebbe essere il compito della posta in gioco.

 

In definitiva, “Ho imparato a odiarti” è un romanzo che si fa leggere. Peccato che una buona metà verta su una protagonista che non cambia, non si trova mai davvero in difficoltà, non ha niente da perdere. Il suo unico ruolo è fungere da punto di vista femminile, fondamentale in romanzi di questo genere.

Peccato.

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“Unfit vol. 1: Rachel”: il romance vittoriano si fa femminista https://www.cleisende.it/unfit-rachel-miss-black/ Mon, 29 Mar 2021 16:39:25 +0000 https://www.cleisende.it/?p=873 “Bridgeton” di Netflix è stato solo l’ennesimo caso di romance vittoriano zozzarello di successo. Miss Black ha deciso di cavalcare l’onda con una serie a...

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“Bridgeton” di Netflix è stato solo l’ennesimo caso di romance vittoriano zozzarello di successo. Miss Black ha deciso di cavalcare l’onda con una serie a tema, di cui “Rachel” è il primo libro.

La nostra cara Miss Black è sempre sul pezzo, niente da dire. Nonostante qualche scivolone, la sua produzione rimane di gran lunga sopra la media dei romance e degli erotici italiani. Il primo volume di “Unfit – Amori di tre ragazze impresentabili” non fa eccezione.

La trama

Le sorelle Vassemer sono destinate a rimanere zitelle, c’è poco da fare. Il padre, sir Henry, le ha cresciute in modo troppo bizzarro, perché trovino posto nella società. Sono tutte colte, indipendenti, disinteressate a quello che la gente pensa di loro. Nessuna delle tre accetterebbe mai di farsi imbrigliare da un uomo, il che le rende una pessima scelta per qualsiasi giovane dotato di buon senso.

Quando però crolla il tetto della loro dimora, Cranwell House, tutto cambia.

Il padre delle sorelle muore nell’incidente; la maggiore delle tre, Rachel, si salva per miracolo.

Se si fosse già ritirata per la notte, come ogni brava gentildonna avrebbe dovuto fare a quell’ora, sarebbe certamente rimasta uccisa. Tuttavia, (…) Rachel era nella torretta, intenta a osservare il cielo stellato di settembre attraverso il grande telescopio riflettore da trentasei pollici (…)

L’uomo ha lasciato una discreta rendita alle sorelle Vassemer, il che dovrebbe garantire loro una vita più che dignitosa. C’è solo un problema: nel testamento, il padre ha anche disposto che le figlie vengano affidate a tre tutori. Il documento è vecchio, risalente a quando le tre erano solo delle bambine. Ciò non toglie che sia ancora valido.

Nonostante abbia ben trentatré anni e sia perfettamente in grado di cavarsela da sola, Rachel viene spedita nella tenuta del Marchese di Northdall. L’uomo è vedovo e con due figli, si accompagna a un bizzarro servitore indiano e ama i propri cavalli sopra qualsiasi cosa. Soprattutto, chiede a Rachel di sforzarsi di essere un minimo presentabile.

Si preannuncia una convivenza scoppiettante.

Lo stile

Il libro inizia con uno spiegone in terza persona con narratore onnisciente, il che di solito è un pessimo segno: nel 99,9% dei casi, si potrebbe mostrare tutto con una scena progettata ad hoc, invece che raccontare. Per fortuna l’incipit dura poco e presenta comunque qualche elemento concreto, che ne rende la lettura un po’ più piacevole.

Il resto del romanzo è scritto in terza persona al passato, prevalentemente dal punto di vista di Rachel. La gestione del punto di vista è quasi sempre buona, a parte per qualche scivolone qua e là. Verso la fine, c’è una scena nella quale il punto di vista fa avanti e indietro tra due personaggi, rendendo il tutto un po’ troppo confuso. Non mi vengono in mente altre scene con problemi di questo tipo, però.

A parte per lo spiegone iniziale, le parti in raccontato sono ridotte al minimo: troviamo qualche riga di riassunto qua e là, ma niente di eccessivo. Per il resto, la narrazione è nitida e aiuta il lettore a immergersi nella vicenda. Pollice in alto, insomma.

Perché ce l’ho con gli “spiegoni”

Sto per dire qualcosa di sconvolgente: le regole per scrivere bene non sono state calate dall’alto, anzi. Se certe norme sono finite nei manuali è perché – sorpresa! – qualcuno ha notato che funzionano. Certo, volendo si possono anche violare, a patto però di conoscere le conseguenze. Il che ci porta agli spiegoni e al perché mi stanno sulle scatole.

In uno spiegone – o infodump, se vogliamo usare il termine corretto – un narratore ci butta addosso informazioni crude, raccontando ciò che succede invece che mostrandolo. Ciò riduce il senso di immersione del lettore e interrompe la narrazione o, se lo spiegone è all’inizio, la ritarda.

Ti faccio un esempio.

Stai sognando di essere a cena con Jason Momoa (o con chi pare a te, non importa). Stai già pregustando uno scoppiettante dopocena, quando si spegne tutto e compare un tizio con un foglio in mano. Il nuovo arrivato inizia a raccontarti cosa succede dopo la cena, invece di fartelo vivere in prima persona.

Il tizio in questione è il narratore che ti butta addosso il brano in raccontato, interrompendo così il tuo bel sogno ad occhi aperti. Potrà anche essere bravo a parlare, ma rimane sempre lo stesso problema: ti sta appioppando un monologo al posto del tuo dopocena con Jason Momoa. Fastidioso, no?

Com’è strutturata la storia

Il libro si concentra su Rachel, come il titolo suggerisce in modo molto subdolo. Ciononostante, nella prima parte del romanzo troviamo qualche capitolo dedicato alle sorelle. In questo modo il lettore si fa un’idea di quale sia la loro situazione di partenza, in vista dei prossimi due romanzi dedicati a loro.

Oltre a Rachel, seguiamo anche le vicende di Northdall; l’uomo è alle prese con il figlio maggiore, che pare star imboccando una brutta strada. Pur essendo una linea narrativa secondaria in questo romanzo, sono sicura che acquisterà importanza nei libri successivi.

Per quanto riguarda la struttura, devo dire che è abbastanza chiara per chi ha un minimo di occhio. Primo turning point, midpoint e secondo turning point sono abbastanza facili da trovare (analisi con spoiler pesanti nella nota)1.

Femminista sì, ma al passo con (quei) tempi

Miss Black è femminista e si vede: le sue donne sono forti, indipendenti, con un sano appetito sessuale. Potrebbero campare benissimo anche senza un uomo accanto e, proprio per questo, cercano un compagno di viaggio piuttosto che una stampella cui appoggiarsi.

“Rachel” non fa eccezione: la protagonista è caparbia, forte, colta. Peccato che viva in un tempo nel quale le donne sono in gran parte “piante da interni” (parole di Miss Black). C’era il rischio che Rachel risultasse anacronistica, essendo così strana rispetto alle altre donne del suo tempo. Per fortuna, l’autrice ha gestito la cosa senza problemi.

Pur essendo una donna decisamente avanti, Rachel rimane figlia del suo tempo: mantiene quel minimo di rispettabilità che si chiede a una donna ed è ignorante su tutto ciò che riguarda il sesso, il che si rivelerà importante per la storia. Lo stesso vale per Northdall: pur essendo molto avanti su certe cose (il suo migliore amico è un servitore indiano, per dire), rimane ancorato al concetto di “presentabilità”.

Questo approccio mi è piaciuto molto. Da una parte, Miss Black ci fa assistere alla genesi del femminismo contemporaneo. Dall’altra, non fa l’errore di applicare schemi mentali contemporanei a tempi non ancora maturi.


1 L’incidente scatenante dovrebbe essere il crollo della casa di famiglia. Il primo turning point, ovvero quando le cose cambiano in modo tale da non poter tornare più indietro, è quando Rachel comincia i suoi giochini con lo stalliere e scopre le gioie della masturbazione. Nel midpoint, Rachel accetta di sposare Northdall dopo essere stata stuprata dallo stalliere in questione; in sostanza, è costretta a cambiare la propria visione del mondo e impara a fidarsi di Northdall. Nel secondo turning point, la prima notte di nozze, questa fiducia viene messa a dura prova. In seguito, Rachel scopre di potersi fidare di Northdall anche dal punto di vista sessuale e vissero tutti felici e contenti.

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Com’è fatto un master BDSM? Ce lo spiega Lara Esse https://www.cleisende.it/master-bdsm-lara-esse/ Thu, 11 Mar 2021 21:19:40 +0000 https://www.cleisende.it/?p=863 Il tema di come è fatto un “vero” master BDSM è una delle più sentite nell’ambiente, specie dai giovani uomini. Il libro “Nel buio ti...

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Il tema di come è fatto un “vero” master BDSM è una delle più sentite nell’ambiente, specie dai giovani uomini. Il libro “Nel buio ti vedo” di Lara Esse parla proprio di questo

Spoiler: il “vero” master, quello alla Christian Grey, non esiste. O meglio, esiste ma non vuoi andarci a letto né tanto meno praticarci BDSM. Come già accennato nella recensione di “Come petali di ciliegio”, i maschioni protagonisti di tanti libri erotici sono in realtà figure abusive. Rimane quindi da capire com’è fatto davvero un uomo dominante e, magari, anche un po’ (tanto) sadico.

Nel buio ti vedo” di Lara Esse gira proprio intorno a questa domanda, motivo per cui lo userò come pretesto per approfondire l’argomento dopo un’analisi più formale.

Di cosa parla “Nel buio ti vedo”

Alice è una giovane donna normale, che divide la propria vita tra casa e lavoro. La tipica ragazza acqua e sapone che frequenta ragazzi altrettanto normali e innocui. In apparenza.

In realtà, sono anni che Alice cerca il coraggio per entrare nell’ambiente BDSM. Pur essendosi iscritta a diversi munch, ne ha frequentati solo un paio e non ha mai approfondito la conoscenza con nessun membro della Scena. Forse il suo momento è arrivato.

Un giorno Alice trova una lettera anonima nella cassetta delle lettere. Un uomo la invita a casa sua, promettendole di farle scoprire i segreti della dominazione erotica a una condizione: prima di ogni incontro, Alice dovrà indossare una benda.

L’uomo senza volto, ribattezzato “MrDark” dalla protagonista, porterà Alice in luoghi di se stessa che non avrebbe mai pensato di raggiungere. Qual è la sua vera identità, però?

Che sia qualcuno che Alice conosce già?

Analisi tecnica del romanzo

Prima di passare al discorso sul “vero” master BDSM, due parole su com’è scritto e strutturato il romanzo.

La storia

Mi piacerebbe dire che la premessa di “Nel buio ti vedo” è assurda1, ma sarei molto ottimista. Pochi MrDark ti lasciano una lettera nella cassetta della posta (per fortuna), però di masteroni che ti propongono incontri al buio su internet è pieno il mondo. Allo stesso modo, è pieno il mondo di persone giovani che si buttano a capofitto nell’esperienza.

Diciamo che di solito non va come nel romanzo. Probabilmente, l’aspetto più inverosimile della storia è che MrDark si riveli una persona tutto sommato seria, desiderosa di instaurare un legame duraturo con Alice. Nella realtà, una persona che non gioca così tanto a carte coperte è probabilmente una persona abusiva. Fatta eccezione per questa cosa, però, il romanzo dà un’immagine abbastanza fedele del BDSM.

Dopo le famigerate Sfumature, il panorama erotico si è riempito di autori che scrivono di BDSM senza saperne un tubo. Lara Esse è invece una persona che ne capisce ed è evidente per due motivi:

  • la storia gira intorno a un problema reale all’interno della Scena, descrivendo un rapporto di dominazione e sottomissione realistico, anche se romanzato;
  • le sessioni descritte non si limitano alle solite due pacchette sul culo che si vedono nei libri erotici. Niente contro le sculacciate, anzi, però è bello leggere un libro con qualche pratica BDSM un po’ diversa dal solito. Alice si diletta con figging, kinbaku, breath play, elettro play… Insomma, c’è un po’ di varietà.

La struttura del romanzo è un po’ approssimativa: la vicenda inizia con Alice che incontra MrDark, senza lasciarci il tempo di conoscere la protagonista; Valerio, un personaggio importante per la storia, entra in scena solo al 37% del romanzo; certe scelte sembrano essere state prese in corso d’opera. In compenso, il conflitto è sempre presente e non ci sono momenti di noia.

Secondo me, sia i pro sia i contro sono dati dalla modalità di scrittura dell’autrice. Lara Esse nasce infatti su Wattpad e i suoi romanzi sono di fatto feuilleton, storie a puntate. Ciò significa che bisogna entrare subito nel vivo dell’azione, tenere alta l’attenzione dei lettori e saper improvvisare.

Lo stile

Le vicende sono narrate in prima persona da Alice, intervallate da parti in corsivo narrate invece da MrDark. L’autrice rimane fedele al punto di vista scelto, il che facilita l’immersione nella mente della protagonista. Ciononostante, devo segnalare due punti dolenti.

  • L’uso di una prosa inutilmente ricercata in alcuni punti, specie quando si descrivono atti sessuali. Usare tante parole desuete e metafore rende le descrizioni opache e meno immersive, il che viola il principio base di un romanzo: farti vivere l’esperienza come se fossi sul posto. A discolpa di Lara Esse, devo dire che è una tendenza comune nel genere. Presto o tardi approfondirò la cosa.
  • Una punteggiatura spesso incerta. Niente di irreparabile, sia chiaro: basterebbe una revisione un minimo approfondita per risolvere il problema.

Per il resto, c’è qualche spiegone qua e là, ma niente di terribile. In generale, l’unica cosa che mi sento davvero di consigliare all’autrice è di alleggerire la prosa. Basterebbe questo per migliorare nettamente lo stile, dato che i principi base del buon scrivere ci sono già: mostrare le scene invece che riassumerle; evitare di saltellare da un punto di vista all’altro.

Non è banale come sembra.

Come si riconosce un master?

L’intera storia ruota intorno a una domanda: qual è il vero volto di un master, nella vita di tutti i giorni? MrDark è indubbiamente un uomo dominante e anche parecchio sadico, seppure nei limiti di sicurezza e consenso. Eppure, Alice non ha idea di chi sia veramente né di come sia fatto.

Fino al secondo turning point, né il lettore né Alice conoscono la vera identità dell’uomo. L’unica cosa che scopriamo, verso un terzo del libro, è che Alice ha già incrociato MrDark in un contesto informale e che non l’ha riconosciuto come un “vero” master e, anzi, l’ha scambiato per un sottomesso. Questo l’ha – comprensibilmente – mandato in puzza.

È da qui che voglio partire.

Alice ha fatto un errore: dare per scontato che un uomo dominante a letto sia sempre riconoscibile a colpo d’occhio. È davvero così? Chi domina nel privato fa emergere questo tratto anche nella vita di tutti i giorni? Per esperienza, no. Ci sono master che rispecchiano lo stereotipo da libro erotico, ma sono la proverbiale eccezione che conferma la regola.

Ci sono due ragioni, a mio parere.

  1. L’idea platonica del Master BDSM è, appunto, un’idea: nella realtà non esiste. Si parla prima di tutto persone, ciascuna con il proprio carattere specifico, i propri feticismi, le proprie fissazioni. Cercare di farli entrare tutti nello stesso stampino è inutile e stupido. Alcuni sono dominanti a 360°, altri lo sono solo a letto, altri ancora lo sono a letto e in altri ambiti specifici della vita. Non esiste una regola2.
  2. L’istinto dominante non sorge solo in figaccioni alti un metro e novanta, con l’addominale scolpito, che vestono solo Armani e con un attico nel centro di Milano. Lo so, è una grossa delusione.

Un dominante debole non è un dominante

A dispetto di quanto visto sopra, verso un terzo del libro Alice ci dice:

Un dominante non può permettersi di farsi vedere debole, tutto in lui deve manifestare quell’idea di controllo che poi mette in atto. E non mi riferisco all’abbigliamento ma proprio a come si pone. Voce, parole, gesti e sì, anche presenza fisica, devono rispecchiare quello che si vuole trasmettere. (…) Mi dispiace, un dominante deve essere capace di farmi vivere certe sensazioni e con una caricatura di uomo non ci riuscirei.

Ci sono momenti in cui la nostra Alice si fa proprio volere bene, vero? La citazione è decontestualizzata per non fare spoiler, ma il messaggio è forte e chiaro: un dominante debole, magari pure alto un metro e un tappo, non può essere un vero master. Ovviamente la nostra eroina dovrà rivedere certe opinioni, ma non corriamo troppo.

Quella di Alice è un’opinione estrema e poco condivisibile? Poco ma sicuro: come detto sopra, chi gioca da dominante nel BDSM non necessariamente è dominante nella vita o si attiene a certi canoni estetici. All’interno del gioco, il master mantiene il controllo della situazione ed è auspicabile che trasmetta anche una certa sicurezza. Non si può pretendere che sia così anche una volta messi via i frustini.

Il BDSM è fatto di persone e, psicopatici a parte, le persone hanno momenti di debolezza e incertezze. È questo che Alice non capisce, in un primo momento: le persone sono puzzle e il “master” è solo uno dei tanti pezzi. MrDark è sì cattivissimo e sexyssimo quando Giocano, ma ha anche lui diritto ad avere dei punti deboli.

Vuoi un altro esempio di master sadico nel gioco quanto tenero nella vita? Leggi il mio articolo su “Nana to Kaoru”.

Sotto i quaranta non puoi essere un master

Lo stereotipo del masterone maschione figaccione è un problema sotto tanti punti di vista. Punto uno: se sei alto un metro e sessanta, puoi considerarti un vero master? Punto due: se un completo Armani costa quanto un tuo stipendio, puoi considerarti un vero master? Punto tre: se sei disoccupato e hai paura per il futuro, puoi considerarti un vero master?

Ma soprattutto: se hai vent’anni e qualcosa, puoi considerarti un vero master? E qui iniziano i problemi.

I papabili MrDark sono persone adulte, quindi il libro non tocca la questione dell’età. Nella vita di tutti i giorni è invece un problema non da poco. Ho sentito diversi ragazzi che giocano da dom lamentarsi di essere presi poco sul serio, in quanto troppo giovani: se non hai quarant’anni di età e cinquant’anni di esperienza nel BDSM, non puoi essere un vero master.

Il che è una stronzata, mi pare ovvio.

Torniamo al libro e vediamo quali sono gli elementi che rendono MrDark un vero master:

  • ha “intenzioni serie” con Alice, con la quale instaura un rapporto continuato di dominazione e sottomissione;
  • mantiene sempre un ottimo controllo della situazione, anche in momenti critici;
  • mostra un’ottima capacità di rimanere nel personaggio durante le sessioni, stuzzicando la fantasia di Alice;
  • ha competenze tecniche in ambito BDSM, che gli consentono di andare oltre le solite pacchette sul culo che vediamo nei libri erotici.

L’età di MrDark è ininfluente e, per quanto ne sappiamo all’inizio, potrebbe anche essere fatto così: vent’anni e qualcosa, tono perennemente pacato, fisico esile, faccino pulito da bravo ragazzo3.

Come in altri ambiti della vita, si dà per scontato che una persona “grande” sia anche “esperta”. Non è vero. L’effettiva bravura di un master dipende non solo dagli anni di pratica, ma anche dall’impegno e dallo studio. So di ammazzare un po’ la poesia, però certe pratiche BDSM richiedono di tornare sui libri; il kinbaku è uno degli esempi più eclatanti, ma di sicuro non l’unico.

Si può praticare per vent’anni alla carlona, senza preoccuparsi di imparare come far godere – e soffrire – un sottomesso. Si può praticare per un paio, passando ore e ore sui libri a imparare le tecniche più sadiche.

Dipende dalla persona, non dall’età.

Una vera slave è senza limiti?

Dopo aver smontato lo stereotipo del vero masterone che non deve chiedere mai, alto due metri e con un arnese di trenta centimetri, una piccola nota anche sulla “vera” slave.

All’inizio della storia, Alice si rifiuta di stabilire hard limit e soft limit, ovvero pratiche che non vuol nemmeno sentire nominare e pratiche che preferisce non fare. A suo dire, le basta la consapevolezza che MrDark si fermerà al primo accenno di safeword. Questa scelta ha un senso in funzione del finale della storia, ma in una vera relazione BDSM potrebbe essere problematica.

La completa assenza di limiti non solo non è vista come qualcosa di buono4, ma può essere considerata una “red flag”. In parole povere, un campanello d’allarme che potrebbe spingere la figura dominante a non giocare con quella persona.

Non esiste nessuno senza limiti. Anche i sottomessi più masochisti hanno qualcosa che fa loro paura o che non piace. Se quindi qualcuno si rifiuta di comunicare i propri limiti, sta:

  • mentendo per fare bella figura;
  • prendendo la cosa alla leggera, magari a causa dell’inesperienza.

Nessuna delle due cose è auspicabile e questo emerge molto bene nel libro. Alice inizia non ponendosi dei limiti (a parole), tanto è desiderosa di provare tutto del BDSM. Questo costringe MrDark a mettere dei paletti al posto suo, però.

Voglio farle provare nuove sensazioni, nuove situazioni, anche se ammetto il suo non mettere limiti è un limite grande. Vorrei spingerla oltre la soglia, ma lei si ostina a non volerla tracciare. È pronta a tutto con me, ma io non sono pronto a tutto solo per darle una lezione.

Una persona responsabile vuole sapere fin dove si può spingere, almeno a grandi linee. Altrimenti, è costretta a giocare con i piedi di piombo o a non farlo affatto.

Il finale di “Nel buio ti vedo”

Chiudo l’articolo con uno spoiler, come spero sia chiaro dal titolo. Se non hai letto il libro, ci salutiamo qui: spero tornerai per leggere le mie opinioni sul finale.

Fino al secondo turning point, verso i tre quarti del libro, ci sono due MrDark papabili: Mattia e Valerio. Queste sono le loro descrizioni.

Mattia:

Non è neanche brutto, certo, i biondi non sono mai stati il mio stereotipo, ma il suo visino pulito riesce a dare un senso anche a quelli.

Valerio:

Qui, davanti a queste due figure rigide in una perfetta e impeccabile uniforme di servizio mi sento un piccolo moscerino. […] Mi sforzo di guardare le due montagne di carne per presentarmi…

Il primo è detto l’infermierino ed è un collega di Alice, dall’aspetto tutto sommato innocuo. Ciononostante, nel corso del libro fa delle affermazioni che lasciano intravedere un lato oscuro. Valerio, invece, è un militare che frequenta il centro in cui lavora Alice e con il quale lei collabora. Nonostante abbia il “physique du rôle” da master, si mostra sempre tranquillo e pacato.

Considerato il tema alla base del romanzo e quello che sappiamo del primo incontro tra MrDark e Alice, Mattia sarebbe stato la scelta migliore. Il ragazzo non ha per nulla l’aria del sadico e vede abitualmente Alice, anche se i due non si frequentano fuori dall’orario di lavoro. Inoltre è quanto di più diverso ci possa essere da Alex, l’amico di MrDark che Alice incontra a metà libro e che, nella sua immaginazione, dovrebbe assomigliare al suo master misterioso.

Neanche a dirlo, il vero MrDark è Valerio. Secondo me, l’autrice l’ha scelto solo perché Mattia iniziava ad essere una scelta troppo ovvia.

Per come viene descritto Valerio, nessuno darebbe per scontato che sia un sub come ha fatto invece Alice. Esistono tantissimi sub alti e fisicati; quando però vedi una montagna d’uomo a un munch, anche se vestito alla cazzo di cane, dai quasi sempre per scontato che giochi da dom. Mattia, con il suo faccino pulito da bravo ragazzo, avrebbe potuto ingannare Alice molto più facilmente.

Da un certo punto di vista sono anche contenta, ti dico la verità: in un certi punti, Mattia è così insistente da sfiorare l’abusivo. A mio parere, però, sarebbe stato meglio se Valerio avesse avuto un aspetto meno imponente e un po’ più ambiguo.

In compenso, il finale risolve la questione della mancanza di limiti di Alice. Il libro si chiude con Valerio che regala un collare ad Alice dopo – finalmente! – la prima vera negoziazione che si vede nel libro. Con questi due gesti i due formalizzano l’intenzione di portare avanti un percorso insieme, come un vero master e una vera slave.

Direi che è una buona chiusura.


1 Come avevo fatto nella prima stesura dell’articolo.

2 Cosa sulla quale molti non concordano, ci tengo a precisarlo. Secondo alcuni, il vero rapporto Master-Slave non è semplicemente un rapporto stabile di dominazione e sottomissione, ma soprattutto un rapporto 24/7 che permea tutti gli aspetti della vita. Io ho già preso una laurea in “Litigare sul Sesso degli Angeli”, AKA Filosofia, quindi non ho intenzione di litigare anche su questa cosa. Pensate quel che vi pare.

3 Descrizione fatta pensando ad almeno un paio di dom sadicissimi realmente esistenti.

4 Da un master serio, si intende.

L'articolo Com’è fatto un master BDSM? Ce lo spiega Lara Esse proviene da Cleis Ende.

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Love & Anarchy: quando la normalità è una prigione https://www.cleisende.it/love-and-anarchy-recensione/ Sun, 08 Nov 2020 19:22:34 +0000 https://www.cleisende.it/?p=817 “Love & Anarchy” è prima di tutto un inno alla stranezza, al diritto di andare controcorrente, e solo dopo una storia d’amore. Perché? Quando mi...

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“Love & Anarchy” è prima di tutto un inno alla stranezza, al diritto di andare controcorrente, e solo dopo una storia d’amore. Perché?

Quando mi metto a lavorare a maglia, finisco sempre per beccare roba strana. Una volta è quella cagata di “365 Days”, un’altra è quella mezza delusione di “Qualcuno deve morire”… A questo giro mi sono imbattuta in un’opera abbastanza ben scritta, ovvero “Love & Anarchy” (“Kärlek & Anarki” in svedese).

La serie si fa guardare e, per un volta, ha un finale sensato. Pur essendo graziosa, mi ha però urtato un pelo i nervi in certe parti.

La trama

Sofie Rydman è una consulente aziendale freelance sposata con un noto regista pubblicitario, madre di due figli. La sua è una vita opprimente: quando non lavora, sta badando ai figli o al padre, che entra ed esce dall’ospedale psichiatrico; il marito non la calcola di pezza; gli amici sono i classici conoscenti buoni solo per partecipare alle feste.

I suoi unici momenti di sollievo sono quando si chiude in bagno per masturbarsi, mentre i figli bussano alla porta per chiederle roba. Mi stavo deprimendo per lei.

Sofie inizia a lavorare per una casa editrice sull’orlo del fallimento e qui incontra Max, informatico poco più che ventenne e bello come il sole. Max ha anche una notevole faccia di bronzo: quando sorprende Sofie a masturbarsi in ufficio, la fotografa e le fa credere di volerla ricattare.

Questo primo “incidente” dà il via a una serie di sfide bizzarre, tutte volte a contraddire norme sociali che consideriamo normali: “non urlare senza motivo”, “guarda dove cammini”, “rimani al tuo posto”… Inutile dire che le cose prenderanno presto una svolta romantica.

Uniformarsi o uscire dal guscio?

Il tema principale della serie è il valore della normalità nella nostra società. A causa della malattia del padre, Sofie è sempre molto attenta al rispetto delle norme sociali, troppo attenta. Di fatto si masturba non tanto per desiderio sessuale, quanto per alleviare il peso delle regole che la schiacciano.

L’oppressività delle regole sociali emerge anche in altri personaggi, come nella figlia maggiore e nel padre. La prima è una ragazzina solitaria e matura, che preferisce passare l’intervallo sui libri piuttosto che stare con gli altri. Il secondo è un vecchio comunista che cerca (invano) di combattere l’avanzata della tecnologia. Entrambi soffrono all’idea di adattarsi a “come vanno le cose”, il che li rende quasi dei reietti.

Tutto il telefilm è quindi una difesa dell’essere “strano” e genuino, nonché della necessità di trovare una propria strada indipendentemente da quello che pensano gli altri. Il messaggio è condivisibile di per sé; il problema è un po’ la messa in atto.

“Strano” è sempre bello?

Premetto che questa è un’idea del tutto personale. Condivido il tema centrale del film, specie perché io stessa mi sono sempre collocata tra quelli “strani”. Non mi ha fatto impazzire com’è stato declinato in certi punti, però.

Tutto “Love & Anarchy” è impregnato di una non troppo velata critica ai tempi moderni, a internet, alla perdita di valori. A me queste cose fanno sempre girare un po’ le palle, perché mi sembrano semplificazioni stucchevoli.

I giovani sono sempre mezzi lobotomizzati, troppo concentrati sui loro telefoni per vivere davvero. Se preferisci leggere piuttosto che stare con gli altri, sei un’anima sensibile e unica. Gli psicologi sono sempre individui tristi, che vogliono soffocare la luce speciale che brilla in te. Se vuoi fare vera arte, non puoi attenerti a regole o a piani editoriali.

Dio santo, manca solo il classico: “non ci sono più le mezze stagioni” per avere il quadro completo.

Da scrittrice capisco che spesso si debba semplificare per mandare un messaggio. In questo caso, però, gira tutto intorno a messaggi discutibili, pensati per vincere la simpatia di chi si sente un delicato fiocco di neve in una società cattiva.

Sofie e Max, la strana coppia

Finito l’angolo della polemica, il tema della “stranezza” si declina anche nel rapporto tra Sofie e Max. I due protagonisti sono legati da una bizzarra e ambigua amicizia, ben lontana da quello che le norme sociali prescrivono.

Ci si aspetterebbe che Max dia corda alle avance delle sue coetanee, invece che fissarsi con una donna di vent’anni più vecchia. Dal canto suo, Sofie dovrebbe comportarsi da madre di famiglia responsabile, non lasciarsi incantare dal vigore giovanile del collega. Invece, i due legano sempre di più e in modo tutt’altro che amicale.

Devo dire di aver gradito questo modo di rappresentare il tema, ben più delle cavolate viste sopra. Nella nostra società è considerato normale che un uomo adulto flirti o addirittura scopi con una ragazza più giovane. Il contrario è sempre visto di cattivo occhio, come qualcosa di strano e addirittura inquietante.

Basti pensare alle malignità dette su Brigitte Macron, venticinque anni più vecchia del presidente francese. Melania Trump è venticinque anni più giovane dell’ormai ex presidente, ma la cosa non pare aver altrettanto turbato gli animi.

Il finale

Il finale di “Love & Anarchy” è in linea con il tema della serie, al contrario del finale di “Cuties”.

Il marito di Sofie, stufo delle stranezze della moglie e del suocero, decide di trasferire l’intera famiglia a Londra. Sofie si spegne e pianta in asso sia il povero Max sia la casa editrice, che è più che mai in merda.

Durante una giornata alla spa con degli amici, Sofie capisce però di non volere quella vita. Molla marito e amici, raggiunge la casa editrice e si ricongiunge con il suo amore. Quanto alla casa editrice, si intuisce che potrebbe trovare la salvezza grazie a un manoscritto eccezionale.

Sorvoliamo sull’ottimismo di cui l’ultima frase è pregna. In ogni caso, alla fine i “buoni” rifiutano le convenzioni sociali, scegliendo di seguire la propria strada indipendente da ciò che dicono gli altri. Questo li premia con l’amore, l’amicizia e con nuove soddisfazioni personali. Perfettamente in linea con il tema della serie, se ci si ferma qui: l’importante è non fare un’altra stagione.

Netflix, non girare “Love & Anarchy 2”!

Con tutti i suoi piccoli problemi, “Love & Anarchy” è comunque una serie finita, che non ha bisogno di un seguito. Anzi, i protagonisti hanno raggiunto i loro obiettivi, il tema si è concluso e va bene così. Una seconda stagione potrebbe solo smontare il messaggio della prima stagione.

Alla fine della prima stagione, la casa editrice è ancora messa male come all’inizio e questo è una svista abbastanza grave. Il grande problema della casa editrice è infatti il suo rifiuto di piegarsi a certe convenzioni; guardando il tema del telefilm, questo dovrebbe essere solo un bene, e invece… Per sopravvivere in una seconda stagione, dovrebbe fare i compromessi che ha rifiutato.

Meglio sorvolare, lasciando credere agli spettatori che il romanzo finale è bastato a salvarle il culo.

Quanto a Max e Sofie, in una seconda stagione sarebbero una coppia senza giochi o scommesse (a meno di non voler fare una copia della prima stagione), quindi relativamente normale. Non vedo quali altre tematiche interessanti potrebbero sviscerare.

No no, speriamo che Netflix si fermi finché è in tempo.

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“Qualcuno deve morire”: l’omosessualità è solo la punta dell’iceberg https://www.cleisende.it/qualcuno-deve-morire-recensione/ Mon, 19 Oct 2020 14:31:28 +0000 https://www.cleisende.it/?p=766 Tutti coloro che parlano di “Qualcuno deve morire”, la miniserie Netflix uscita il 16 ottobre 2020, si concentrano sul tema dell’omosessualità nella Spagna di Franco....

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Tutti coloro che parlano di “Qualcuno deve morire”, la miniserie Netflix uscita il 16 ottobre 2020, si concentrano sul tema dell’omosessualità nella Spagna di Franco. L’attenzione dei più si è focalizzata sulle difficoltà di essere gay in una società fascista. Secondo me, è una lettura dell’opera riduttiva.

Il tema dell’omosessualità fa da motore alle vicende della miniserie ed è centrale, questo è vero. L’opera va però molto oltre e affronta i drammi di una società repressiva a tutto tondo.

La trama

“Qualcuno deve morire” (“Alguien tiene que morir” nella versione spagnola e “Someone has to die” titolo internazionale) è ambientata nella Spagna degli anni ‘50.

Per chi masticasse poco la storia, siamo nel pieno della dittatura fascista di Franco, durata dal 1936 al 1975. Tra le tante amenità che hanno caratterizzato questo regime, c’è stata anche una condanna feroce dell’omosessualità maschile e femminile. “La Spagna deve rimanere pura”, ripetono più volte alcuni personaggi della miniserie ed è stato effettivamente uno dei punti essenziali del regime.

Tornando alla miniserie, Gabino è il rampollo di una ricca famiglia spagnola. Il padre ha un incarico governativo e la madre è un’immigrata messicana, trasferitasi in Spagna per amore. La nonna è la matrona che porta avanti la casa in modo rigido, secondo i dettami della dittatura. Poco stupisce che Gabino non abbia una grande considerazione per la Spagna, dalla quale è scappato ormai da 10 anni per trasferirsi in Messico.

Tutto inizia quando l’ormai adulto Gabino ha la disgraziata idea di tornare in Spagna, anche se solo temporaneamente. Quel che è peggio, torna portando con sé un bellissimo ragazzo messicano, Lazaro.

I due sono molto legati, tant’è che hanno in programma un viaggio in Europa insieme, prima di tornare in Messico. In più, Lazaro è un ballerino di danza classica. Basta questo per bollare i due come omosessuali, con tutto ciò che ne può conseguire nella Spagna franchista.

Leggi anche: “La Tentazione”, il mio horror erotico

Omosessuale? No, “sensibile”

Gabino è effettivamente gay e questo lo si capisce fin dalle prime battute, specie quando entra in scena il vecchio amico Alonso. È chiaro che c’è stato qualcosa tra i due, prima che Gabino partisse, anche se Alonso fa di tutto per negarlo e tenerlo nascosto.

Scelta forse non così stupida, dato l’andazzo nel Paese.

Il problema non è solo con chi i personaggi vanno a letto o vorrebbero andare, però. Il problema è quanto si adattano al modello di uomo o donna promosso dalla dittatura. La storia non parla della difficoltà di essere gay sotto Franco. La storia parla della difficoltà di essere se stessi e “umani” sotto Franco.

In un contesto come quello della dittatura franchista, l’unico atteggiamento accettato è un asettico opportunismo. Non c’è spazio per i sentimenti, la sensibilità, l’amore. Gli uomini devono essere forti e pronti a tutto, pur di avere successo. Le donne devono essere silenziose ma subdole, pronte a sedurre i partiti migliori. Il matrimonio è uno strumento per connettere famiglie e dare nuove braccia alla Spagna, nient’altro.

L’omosessualità non trova spazio in una realtà del genere, è chiaro. L’uomo che sceglie un suo pari come compagno di vita è un debole, qualcuno incapace di imporsi sul partner com’è “normale” in un matrimonio eterosessuale. Peggio ancora, è qualcuno che ha deciso di anteporre i sentimenti all’opportunismo. L’unione omosessuale è infatti sterile e quindi fine a se stessa, portata avanti solo per amore.

Inaccettabile.

Tutti mentono

Gabino e Alonso sono i due personaggi che hanno di più da nascondere e da perdere, se il loro segreto venisse fuori. In generale, però, quasi tutti i personaggi principali mentono in qualche misura e ne pagano le conseguenze.

  • Gabino nasconde la sua omosessualità stando lontano dalla Spagna, nel ben più permissivo Messico. Purtroppo, non si può scappare per sempre, specie quando i soldi li tira fuori papà.
  • Alonso si è costruito un’immagine di uomo forte e cinico, soffocando quello che desidera davvero per sé.
  • Mina, la madre di Gabino, si è adattata al ruolo di moglie ed è morta pian piano dentro. Cerca di tenere accesa una fiammella di empatia e sensibilità, ma non ha il coraggio per ribellarsi al sistema e fare qualcosa di concreto per aiutare gli altri.

Gli unici personaggi che prosperano sono quelli che incarnano il sistema alla perfezione, almeno all’inizio: Amparo, la nonna di Gabino; Gregorio, il padre di Gabino; Cayetana, la sorella di Alonso. Sono tutti e tre personaggi cinici, freddi, che hanno sacrificato il proprio cuore all’altare della Patria. Non per nulla, sono anche gli antagonisti della storia, coloro che cercano di soffocare la spinta al cambiamento degli altri1.

E Lazaro?

Leggi anche: “Chi ha paura della sessualità bizzarra di Mellick?”

Lazaro, colui che traina il cambiamento

Lazaro è il personaggio che cambia meno nella miniserie e per un’ottima ragione: lui è il catalizzatore del cambiamento, colui che dà il via a tutto. Al contrario degli altri, è sensibile e non si vergogna di esserlo, tant’è che è un artista. Si rivolge agli altri con spontaneità, è leale con gli amici, cerca in tutti i modi di essere una brava persona.

Insomma, Lazaro rifiuta il modello di “uomo forte” che sta alla base della Spagna franchista.

Tanta sensibilità, tanto amore per il mondo non possono restare inosservati né impuniti. Lazaro attira subito l’attenzione di tutto il circolo sociale di Gabino e, ovviamente, dà il via a una cascata di malelingue. Chi vorrebbe cambiare, imparare a vivere per quello che è veramente, viene attratto da questa figura dalla bellezza così pura. Chi invece nel modello repressivo ci sta benissimo la prende subito in antipatia.

Ecco perché Lazaro non è parte del cambiamento, quanto il suo pretesto.

Il finale

Alla fine del primo episodio, ci rendiamo conto che Lazaro e Gabino non stanno insieme. Anzi, Lazaro è eterosessuale e l’amore che nutre per Gabino è puro e fortissimo, ma solo amicale. Ciò non toglie che le voci continuino a girare, tanto che Alfonso cerca di avvertire il vecchio amico a modo suo. Ovvero pestandolo a sangue.

Eh, gli amici veri.

Nel mentre, Lazaro sviluppa un mezzo intrallazzo con Mina. Le voci continuano e sfociano in una denuncia vera e propria; Gabino viene arrestato dal padre, mentre Lazaro riesce a scappare. Ciononostante, il ragazzo torna indietro per salvare l’amico. Qui va tutto in vacca.

Lui e Mina si trovano e decidono di scopare nel bosco del circolo di caccia frequentato da lei. Una visione chiara delle priorità, direi. Stranamente, vengono beccati da Cayetana che li denuncia al marito di lei. Strano, eppure sono stati così prudenti…

EDIT: Un commento su YouTube mi ha fatto notare che era tutto un piano per dimostrare che a Lazaro piacciono le donne, indi per cui non poteva avere una relazione con Gabino. Un piano vagamente demente, ma comunque una cosa voluta. Su quella cosa in particolare, il mio rant era ingiustificato.

L’accusa di omosessualità decade, dato che Lazaro ha dato prova di essere un vero uomo scopandosi la moglie del padre del suo presunto amante. Gregorio libera il figlio e lo porta ad ammazzare madre e amico. Gabino, stranamente, non è d’accordo.

La miniserie finisce con tutti che sparano a tutti e tutti che muoiono, tranne Gabino e la madre. L’ultima inquadratura si sofferma su loro che guardano Lazaro morto.

Bene.

C’è speranza? Non è chiaro

Il finale di “Qualcuno deve morire” mi ha delusa. L’ho trovato frettoloso, incapace di prendere una posizione chiara su quale dovrebbe essere il senso dell’opera.

Piccola digressione tecnica. Tutte le storie scritte bene hanno una sorta di “morale”: ne ho accennato anche nell’articolo dedicato alla biografia di Bettie Page. Non dev’essere per forza una morale positiva o un insegnamento; piuttosto, esprime la visione del mondo dell’autore. Lajos Egri parla di “premessa”, altri lo chiamano semplicemente “tema”. La sostanza non cambia.

Il problema è che la miniserie non trasmette una visione chiara del mondo, nel finale. Durante i tre episodi emergono il senso di claustrofobia dei personaggi, l’assenza di una speranza, la voglia di fuggire da un ambiente repressivo. Sul finale, c’è solo tanta confusione.

Sorvoliamo sul brillante piano di Lazaro e Mina, che faceva acqua da tutte le parti. Ad ogni modo, cosa mi dice il finale? Alla fine, c’è speranza per chi vuole vivere la propria vita? Oppure il mondo è in mano ai cinici, destinati a vincere e a schiacciare le anime più sensibili?

Boh? Muoiono tutti, sia i cinici sia i puri. Finisce tutto a colpi di pistolettate, senza che emerga un vero senso dalla storia. Peccato.


1 A onor del vero, anche Alonso è uno degli antagonisti per buona parte della storia. Data la sua omosessualità, è diviso tra la voglia di cambiare e il desiderio di soffocare il cambiamento altrui.

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Fable di Honor Pitt: rimandata a settembre ma non (ancora) bocciata https://www.cleisende.it/fable-honor-pitt/ Mon, 12 Oct 2020 16:07:59 +0000 https://www.cleisende.it/?p=735 Via il dente, via il dolore: per molti versi, i primi due libri della saga “Fable” di Honor Pitt sono un disastro. Non è però...

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Via il dente, via il dolore: per molti versi, i primi due libri della saga “Fable” di Honor Pitt sono un disastro. Non è però mia abitudine parlare (solo) male dei libri di esordienti e piccoli autori. Se un libro è illeggibile, preferisco non parlarne e basta. Specie perché è poco probabile che lo finisca.

Cappuccetto Rosso e la profezia” e “L’invariabilità della virtù” sono scritti male, a tratti parecchio male. Ciononostante, vi ho trovato qualcosa di buono che vale la pena coltivare.

Le trame

I due libri sono ambientati in un mondo simile a quello del fumetto “Fables” di Bill Willingham, nel quale esseri umani e creature magiche convivono. I personaggi sono tutti personaggi di fiabe tradizionali, rielaborati in chiave adulta e affinché possano convivere nello stesso mondo.

“Cappuccetto Rosso e la profezia”

Celeste è l’ultima dei cinque figli di Gretel, una vecchia prostituta che vive in un paesino vicino alla foresta magica di Perceforest. Le tre figlie maggiori – Bianca, Spina e Rossa – lavorano insieme a lei nell’attività di famiglia. La piccola Celeste si limita invece a fare le pulizie, costretta a salvaguardare la propria verginità a causa di una profezia.

Quando Rossa sparisce, Celeste decide di attraversare la foresta per chiedere consiglio alla strega che vi vive. Il percorso si rivela però più impervio del previsto, costellato di incontri pericolosi per la sua vita e non solo… Riuscirà la ragazza a mantenersi integra e a trovare la sorella, ovunque la porti questo strano viaggio?

“L’invariabilità della virtù”

Bianca è una prostituta esperta, bella quanto cinica. Per lei l’unica cosa che conta davvero è la famiglia, per proteggere la quale sarebbe disposta perfino a rischiare la vita. Per fortuna, la regina le chiede di fare molto meno: basterà che seduca il suo primogenito, Damian, che si rifiuta di tornare a corte e di assumersi le proprie responsabilità.

Cosa si nasconde dietro al voto di castità del principe e al rifiuto di prendersi il trono? Non gli piacciono le donne? È asessuale? È impotente? Toccherà a Bianca scoprirlo, anche a costo di infilarsi in affari molto più grandi di lei e dei gusti sessuali di Damian.

Leggi anche: “Il fuorigioco spiegato alle ragazze”: amore, calcio e femminismo”

Il tasto dolente: lo stile

I due libri sono scritti male, ma c’è spazio di manovra. Vediamo quali sono i problemi.

  1. La punteggiatura. La mia punteggiatura non è impeccabile, la punteggiatura di buona parte di ciò che leggo non è impeccabile, nemmeno la punteggiatura di gente che fa il mio stesso lavoro è impeccabile. La punteggiatura di Honor Pitt è a tratti oscena: non usa né due punti né punti e virgola, sostituendoli con piogge di virgole. In alcuni punti, si fa fatica a seguire il periodo.
    La cosa buona? Basta pochissimo per correggere la punteggiatura: un bel ripassino delle regole e passa la paura.
  2. Il punto di vista, saltellante come nella migliore tradizione degli esordienti: prima Celeste, poi Lupo, poi di nuovo Celeste. Tutto nella stessa scena. Prima che qualcuno mi venga a parlare di “stile personale”, faccio presente che è molto difficile seguire e immergersi in una storia raccontata così. Quanto meno, Celeste e Bianca rimangono il punto di vista principale per buona parte dei due libri.
  3. Gli spiegoni, ovvero comodi (e pallosi) riassunti di vicende politiche e personali. A onor del vero, ce ne sono meno che in alcuni libri pubblicati da grandi editori.

Come potrai notare, sono tutti e tre problemi abbastanza facili da risolvere. Al contrario di altri, Honor Pitt pare aver capito che lo “show don’t tell” non è qualcosa che si mangia: usa un linguaggio chiaro, senza uscite auliche imbarazzanti; immerge il lettore nella mente del punto di vista di turno; costruisce scene quasi sempre coinvolgenti, anche se non sempre chiarissime.

Diciamo che ci sono le basi per costruire uno stile godibile e chiaro, con un minimo di impegno.

Dimenticavo: un bel taglio agli avverbi non sarebbe male.

Una buona gestione della tensione

Nessuno dei due libri ha una storia che fa urlare al miracolo, eppure sono coinvolgenti. L’autrice spinge fin da subito ad empatizzare con le protagoniste, anche se non sono mostri di simpatia. Si percepisce anche lo sforzo di creare personaggi secondari che siano un minimo tridimensionali. I cattivi sono un po’ carenti, invece.

Il grande pregio di entrambi i libri è la gestione della tensione. Siamo ben lontani da una divisione in tre atti perfetta, ma Honor Pitt riesce comunque a non annoiare il lettore. Fino alla fine, ci sono solo risoluzioni parziali, che spingono a continuare la lettura.

Può sembrare banale, ma ci sono moltissimi autori che risolvono tutto il risolvibile a metà libro, inventandosi problemi nuovi per invogliare il lettore ad andare avanti. Mi spiace, ma non funziona così.

Un grosso problema nelle storie di questi due libri sono le risoluzioni forse troppo semplicistiche. Soprattutto nel primo libro, ci sono un po’ troppi deus ex machina che rovinano la tensione. Nel secondo, il problema è un po’ meno marcato.

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Li consiglio?

Se non hai paura della punteggiatura oscena, sì: costano un euro a testa e sono disponibili anche con Unlimited. Mi auguro con forza che, presto o tardi, l’autore faccia una bella revisione. O quanto meno che i prossimi libri siano scritti meglio.

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Kissing the Coronavirus. Sexy! Muscoloso! Virale! https://www.cleisende.it/kissing-coronavirus-recensione/ Tue, 06 Oct 2020 07:03:15 +0000 https://www.cleisende.it/?p=728 In queste ultime ore, internet ci ha regalato qualcosa di meraviglioso: “Kissing the Coronavirus”, un racconto di M. J. Edwards su una ricercatrice che si...

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In queste ultime ore, internet ci ha regalato qualcosa di meraviglioso: “Kissing the Coronavirus”, un racconto di M. J. Edwards su una ricercatrice che si innamora del Covid-19. Sì, il virus. E sì, si innamora nel senso letterale del termine.

Come potevo non leggere e commentare una tale perla dell’erotismo?

La trama

Alexa è una ricercatrice chiusa nel proprio laboratorio da mesi, in cerca di una cura per il Covid-19. All’inizio della pandemia, insieme a lei c’erano altri tre uomini; adesso nel laboratorio sono rimasti solo lei e il Dottor Gurtlychund, un ometto gentile ma privo di fascino. Gli altri si sono ammalati di Covid e sono morti.

Sorvoliamo sul tasso assurdamente alto di mortalità nel laboratorio – il 100%! – e arriviamo al terzo ospite superstite: il virus.

La nostra sexy dottoressa, rimasta sola troppo a lungo, inizia a sviluppare un desiderio perverso verso il virus che maneggia tutti i giorni. Finché un giorno non capita qualcosa di imprevisto e, finalmente, ha l’occasione di coronare il suo sogno d’amore…

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Lo stile

"Kissing the Coronavirus" di M. J. EdwardsM. J. Edwards ci tiene a precisare che “Kissing the Coronavirus” è il suo primo libro. Parlare di libro secondo me è un po’ troppo, considerando che sono solo 16 pagine. Detto questo, come primo tentativo di scrittura non è malvagissimo.

Più o meno a metà racconto c’è lo spiegone nel quale scopriamo che fine hanno fatto gli altri scienziati, palloso come tutti gli spiegoni. Per il resto, l’autore mantiene uno stile semplice e abbastanza nitido, con una narrazione ben immersa nel punto di vista di Alexa. L’unico “problema”? Le metafore e le similitudini assurde.

Il racconto è disseminato di descrizioni eccessive che sembrano essere uscite da un porno becero, alcune delle quali così trash da fare il giro e diventare meravigliose. Scommetterei la mano destra che l’effetto è voluto: in alcuni casi, sono troppo stupide per essere serie.

Spero.

Lo consiglio?

Se vuoi farti due risate, indubbiamente: è un racconto troppo stupido per non leggerlo, che prende per i fondelli il filone statunitense dei libri erotici a tema coronavirus. Per di più, costa meno di un euro ed è disponibile anche su Unlimited. Se vuoi dare una mano all’autore, rimasto senza lavoro durante il lockdown, ti consiglio però di comprarlo: con Unlimited si guadagnano giusto due dita negli occhi.

Unica cosa, compralo solo se sei pronto a prenderlo molto poco sul serio. Ho letto recensioni di gente quasi offesa da quest’opera, considerata irrispettosa verso chi è morto per il Covid-19. Francamente, a me sembra solo un modo per alleggerire una situazione fin troppo pesante.


A proposito di racconti erotici strani che costano un euro. Se ti piace il genere, ti consiglio di leggere anche il mio “La Tentazione”, un horror erotico molto liberamente ispirato a “Il Dito” di King.

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No, Netflix non dovrebbe cancellare “Cuties” https://www.cleisende.it/netflix-cuties-recensione/ Tue, 22 Sep 2020 16:09:00 +0000 https://www.cleisende.it/?p=719 Quando ho visto per la prima volta il trailer di “Cuties”, film Netflix girato da Maimouna Doucouré, non avrei mai pensato di difenderlo. Il trailer...

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Quando ho visto per la prima volta il trailer di “Cuties”, film Netflix girato da Maimouna Doucouré, non avrei mai pensato di difenderlo. Il trailer parla infatti di una bambina di undici anni che insegue la propria passione per il ballo insieme a un gruppo di amiche, anche a costo di mettersi contro la propria famiglia.

Vestendosi come una ventenne e simulando rapporti sessuali a suon di musica.

Con queste premesse, l’incazzatura con cui è stato accolto il film è abbastanza comprensibile. Peccato che “Cuties” non parli di questo. Detta in soldoni, il trailer parla di un film che non esiste e ha fatto un pessimo servizio al vero film, spingendo la gente a invocarne la cancellazione prima ancora dell’uscita.

Il film esce nonostante tutto, le persone hanno modo di vedere di cosa parla davvero il film e, sorpresona, non cambia un tubo. Anzi, gli youtuber americani paiono essersi addirittura incattiviti. Avranno ragione?

Spoiler: secondo me no, anche se il film ha davvero delle grosse criticità e, secondo me, risulta meno controverso di quanto vorrebbe essere.

La trama

Appurato che non è la storia di un gruppo di amicone con la passione del ballo, di cosa parla davvero “Cuties”?

Il film inizia presentandoci Amy, undicenne di origini senegalesi trasferitasi da poco con la madre e i due fratellini. Il padre è rimasto in Senegal per motivi ignoti, che si scopriranno essere una seconda moglie che verrà a vivere con loro e con la prima moglie.

Per una serie di coincidenze Amy si imbatte nelle Cuties, un gruppo di coetanee aspiranti ballerine. Le quattro ragazzine si vestono come ventenni, aggrediscono i compagni di scuola fanno confusione al supermercato, bullizzano gli altri ragazzini e la stessa Amy. Eppure, la protagonista si innamora della loro indipendenza e delle loro sessioni di ballo.

Dopo un po’ di tira e molla, Amy entra a far parte del gruppo e inizia a ballare con loro. Inizia così il suo viaggio per emanciparsi dalle regole della famiglia, anche se le cose potrebbero non andare come crede lei…

Di cosa parla davvero “Cuties”

“Cuties” parla della vergine e della puttana, ovvero le due immagini di femminilità che ci vengono calate dall’alto fin da quando siamo bambine, e le condanna entrambe.

Da una parte, Amy subisce i dettami restrittivi della famiglia e della religione, che le impongono di mettere la sua femminilità al servizio dell’uomo come madre e moglie. Dall’altra, viene attratta dall’apparente libertà di chi mette in vetrina il proprio corpo, sia con vestiti succinti sia con atteggiamenti dalla forte connotazione sessuale.

Da una parte c’è la donna che sparisce sotto strati di veli e di vestiti. Dall’altra c’è la donna che sparisce sotto la propria stessa nudità.

Ben presto, Amy si rende conto che la libertà delle sue “amiche” è solo apparente. In realtà, seguono regole rigide come quelle provenienti dalla sua famiglia, spesso senza comprenderne le implicazioni. La ragazzina si trova così invischiata in una rete di errori sempre più gravi, nel tentativo inutile di uniformarsi e di farsi accettare dalle altre.

Paradossalmente (ma neanche troppo), il personaggio più positivo proviene proprio dall’ambiente repressivo in cui Amy è nata ed è quello della madre. Alla fine, sarà lei ad aiutare la figlia a trovare un proprio equilibrio e a tornare la bambina che a undici anni dovrebbe essere.

Come la condanna inizia fin dai primi minuti

Sapete qual è la cosa più ridicola di tutta questa storia? La gente che accusa “Cuties” di inneggiare alla pedopornografia. Il film è indubbiamente forte e ci sono scene che ho fatto una fatica fisica a guardare. È vero che certe persone potrebbero “fruire” di queste scene in modo diverso da quanto inteso dalla regista, un problema da tenere in considerazione.

Da qui ad accusare la regista di fare pedopornografia ne corre, però, specie perché l’intento è palese fin dai primi minuti.

Per andare avanti, devo annoiarvi con due concetti fondamentali per la creazione di una buona storia.

Il punto di vista del protagonista e quello dell’autore non sono la stessa cosa. L’autore non necessariamente concorda con la visione del mondo del protagonista e, anzi, qualche volta la condanna. Come si fa a capire cosa pensa davvero l’autore? Basta guardare cosa ci mostra e che direzione prende la storia.

I primi minuti del film servono a farti affezionare al protagonista, affinché tu prenda a cuore la sua sorte. In queste primissime scene, capisci da che parte devi stare.

Nei primi minuti di “Cuties”, la regista fa due cose:

  1. ci fa empatizzare con Amy, presentata come una bambina sensibile e volenterosa;
  2. spala merda sulle Cuties, che vediamo aggredire compagni di scuola, rubare e altre amenità.

Spiegatemi come si fa a pensare che la regista stia promuovendo un certo tipo di comportamenti, quando i personaggi che li incarnano sono presentati fin da subito in modo negativo. È vero, Amy ne subisce il fascino, ma noi spettatori veniamo messi in guarda molto chiaramente.

Una condanna… blanda?

La posizione della regista viene rinforzata dagli stessi personaggi adulti del film, unanimi nel condannare questi atteggiamenti. L’unica eccezione sono i giudici del concorso di ballo, che rappresentano la realtà deviata dello show business.

A voler essere del tutto sinceri, però, la regista è stata anche piuttosto blanda, sotto certi aspetti. Il film rappresenta una società con un approccio poco sano al sesso, approccio che cala dall’alto sulle nuove generazioni. Senza la guida degli adulti, queste assorbono la visione distorta in modo acritico e cercano di adeguarsi a modelli per loro incomprensibili, scimmiottando quello che vedono online.

Il punto è che non c’è una rappresentazione chiara di come le Cuties siano diventate così. Amy si è fatta trascinare a causa di problemi temporanei, che hanno spinto la madre ad essere assente. E le altre? Le altre sono figurine di cartone, prive di passato e di famiglia, a parte forse per Angelica. L’unico grande colpevole che emerge è una generica “società” rappresentata dai cellulari. E i genitori? E gli insegnanti?

Mi pare una condanna un po’ monca.

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È stato giusto usare delle bambine vere?

Risposta breve: no. Non credo che sia stata una grande idea, dato che ha esposto delle bambine reali alle attenzioni di predatori sessuali altrettanto reali. Qualche cospirazionista insinua addirittura che sia stato appositamente a favore dei predatori sessuali, il che è abbastanza ridicolo.

Tra l’altro, questa scelta ha reso il film vulnerabile agli attacchi che stiamo vedendo, mettendo in ombra la condanna portata avanti dal film. Tutti si concentrano sul fatto che delle undicenni vere hanno sbatacchiato il sedere di fronte a una telecamera. Nessuno pensa alle migliaia di undicenni che lo fanno con un pubblico minore ma potenzialmente più pericoloso, di nascosto dai genitori.

Quando il saggio indica la luna, gli youtuber guardano il dito. O forse non era proprio così.

Ad ogni modo, probabilmente il medium migliore sarebbe stato un cartone animato tipo “Undone” o qualcosa del genere. Per chi non lo avesse visto, questo piccolo capolavoro è stato realizzato usando il rotoscopio. Semplificando a mille, si parte da una pellicola filmata con una tecnica particolare e ci si disegna sopra.

Il cartone animato, anche se realizzato con il rotoscopio, avrebbe permesso di avere personaggi undicenni senza usare undicenni vere. Il problema è che realizzare un cartone animato costa davvero molto; è stata tipo la prima cosa che ci hanno insegnato al corso di sceneggiatura per l’animazione. Non ho quindi idea se la regista avesse i mezzi per raccontare questa storia usando il cartone animato.

Perché Netflix ha lavorato con il culo

Prima locandina di "Cuties"Certo che anche Netflix ci ha messo il suo, perché il film non era abbastanza problematico anche senza le loro minchiate.

Il problema del trailer è che ci mostra solo la condanna alle tradizioni repressive della famiglia di Amy. Delle Cuties, invece, fa vedere solo le scene di ballo e le battutine simpatiche. Sembra quindi che il film condanni la repressione sessuale, in favore di una sessualità allegra e disinibita. Che non sarebbe nemmeno un brutto messaggio, non fosse che le protagoniste hanno undici anni.

Il finale di “Cuties”

Scomodo il buon Victorlaszlo88, che in un suo video ha definito il finale di “Cuties” “didascalico”. Concordo con lui: il finale del film è didascalico e dà l’impressione di c’entrare poco con tutto il resto. Il punto è che non è un impressione: è davvero fuori luogo con il resto della storia.

Riassunto spoiler di Cuties

Per farti capire cosa intendo, faccio un passo indietro e ti spiego cosa succede dopo che Amy si unisce alle Cuties. In sostanza, inizia a combinare una stronzata dietro l’altra:

  1. ruba il cellulare al cugino;
  2. propone alle altre una coreografia che ha del pornografico;
  3. inizia a ignorare i fratellini e a disobbedire;
  4. prega le Cuties di non buttarla fuori, dopo che ha paccato le eliminatorie del concorso per sbaglio;
  5. ruba i risparmi della madre per arruffianarsi le altre con regali;
  6. inizia a vestirsi come le altre Cuties, se non peggio;
  7. si propone sessualmente al cugino cui aveva rubato il cellulare (che la manda a cagare);
  8. mette online una foto dei propri genitali, dopo la qual cosa le altre la buttano fuori dal gruppo e la madre la sottopone a una specie di esorcismo;
  9. scappa di casa, butta una delle altre Cuties in un canale e ne prende il posto al concorso.

Bene no. E come si sviluppa tutto questo, nel finale?

Una volta sul palco, Amy si sente in colpa e torna a casa. A casa, molla sia i vestiti da ballo sia l’abito tradizionale, vestendosi in modo un po’ più adulto rispetto all’inizio ma comunque sobrio. Dopodiché va a giocare con gli altri bambini per strada.

Potresti aver notato che, appunto, il cambiamento finale sembra un po’ improvviso. No, non ho saltato eventi chiave: Amy si comporta da testa di minchia proprio come descritto.

Il punto è che, probabilmente, il finale non doveva essere quello.

Con due atti, il terzo è in omaggio

Te la faccio semplicissima: se conosci un minimo di tecniche di sceneggiatura, verso metà film sai già come butta. Non puoi sapere esattamente come andrà a finire (si spera), ma pressapoco capisci che fine farà il protagonista.

In una buona sceneggiatura, il protagonista inizia a cambiare verso metà film. Il cambiamento non è ancora completo ed è difficoltoso – altrimenti sai che palle – ma ti permette di capire più o meno cosa ne sarà di lui alla fine.

Il cambiamento di Amy nella seconda parte del film è del tutto slegato dal cambiamento finale. Due minuti prima di salire su quel palco, Amy stava buttando una sua ex-amica in un canale. Prima ancora, stava pregando le altre Cuties di non piantarla in asso e di farla ballare con loro. E prima ancora, si stava proponendo sessualmente al cugino.

Il punto è che Amy non ha proprio capito un cazzo nel corso del film. Niente di niente. Nada. Niet. Quell’illuminazione finale è stata appiccicata con lo sputo, ecco perché sembra così fuori posto. Forse la regista non se la sentiva di far finire il film male come avrebbe dovuto. Forse i produttori non volevano un finale negativo.

Non lo so. So solo che quello non è il finale di “Cuties”, ma il terzo atto di un altro film appiccicato dopo i primi due.

Alla fine, com’è?

Nel finale (del cazzo) l’intento della regista è chiarissimo e le accuse splendono in tutto il loro ridicolo. Mi chiedo solo: il film vale davvero tutta questa attenzione, i boicottaggi, il crollo in borsa? Secondo me no, specie perché scandalizza ma si trattiene su molte cose.

La storia dà una rappresentazione semplicistica del problema, muovendosi sulla superficie delle cose. Sospetto che la regista avesse anche un po’ paura di mostrare la cattiveria reale di cui sono capaci i ragazzini. Per non parlare poi del finale.

Insomma, un film con una sceneggiatura mediocre, nonostante la regia di alto livello. Questo non significa che dovrebbe essere cancellato da Netflix.

Anche perché, altrimenti, del catalogo rimarrebbe ben poco.

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Chi ha paura della sessualità bizzarra di Mellick? https://www.cleisende.it/sessualita-bizzarra-mellick/ Mon, 14 Sep 2020 08:00:00 +0000 https://www.cleisende.it/?p=711 Se cerchi storie disturbanti, fatte di sessualità bizzarra e situazioni assurde, Carlton Mellick III è lo scrittore che fa per te. Attenzione, però: è roba...

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Se cerchi storie disturbanti, fatte di sessualità bizzarra e situazioni assurde, Carlton Mellick III è lo scrittore che fa per te. Attenzione, però: è roba per stomaci forti.

Carlton Mellick III è l’uomo che amo di più al mondo, letterariamente parlando. Forse sono i suoi basettoni e la pelata sexy. Molto più probabilmente, sono le sue storie sempre in bilico tra l’erotico e l’orrido, che riescono a farti vedere gli aspetti più raccapriccianti del rapporto di coppia e della società.

Prima di cominciare questa discesa negli inferi sensoriali di Mellick, un grazie speciale a Tapiro che anni fa me lo fece scoprire. Un grazie e una maledizione, dato che era il mio spacciatore di libri strani ed è fermo da ormai quattro anni e passa.

Premessa necessaria: cos’è la bizarro fiction

Carlton Mellick III, padre della Bizarro FictionPremessa necessaria se non hai mai letto nulla a riguardo, ovviamente. La bizarro fiction è un genere incentrato sullo strano, il bizzarro appunto. L’idea alla base è che ciascuna opera debba contenere almeno tre elementi assurdi, a partire dai quali si sviluppa una storia coerente.

Tutto molto bello, ma cosa c’entra il sesso?

L’obiettivo non è solo creare una grossa pila di bizzarrie (o, quanto meno, non dovrebbe esserlo). Un libro di bizarro mira soprattutto a stupire il lettore, divertendolo e anche disgustandolo. Qualche volta, può anche spingerlo a riflettere su aspetti della realtà in cui vive e della propria persona, anche se non è l’obiettivo primario1.

Quale modo migliore per farlo, se non toccando argomenti disturbanti e considerati tabù?

E dove si concentrano gran parte dei tabù e delle nevrosi?

Nel sesso, of course.

Ecco quindi che i libri di bizarro fiction sono quasi sempre pieni di riferimenti più o meno espliciti al sesso e alle funzioni corporali di base.

Il sesso bizzarro è la cosa meno erotica che ci sia

Nel piccolo saggio che chiude le opere di Mellick tradotte da Vaporteppa, Chiara Gamberetta fa notare che c’è ben poco di erotico nel sesso descritto dall’autore.

Le descrizioni entrano fin nei più piccoli dettagli, andando ben oltre la descrizione visiva di ciò che accade. Mellick si sofferma sugli odori, i sapori, le sensazioni tattili dei protagonisti, dandoti l’impressione di star vivendo l’esperienza in prima persona. Tutto questo sarebbe molto eccitante, se il sesso presentato da Mellick non fosse quasi sempre ai limiti del disgustoso per tre ragioni.

  1. I protagonisti di Mellick sono una grande collezione di fetish estremi. No, quando dico estremi non intendo estremi in senso SSC. Intendo estremi nel senso di patologici. L’esempio più assurdo arriva da “Exercise Bike”, nel quale vediamo persone che si fanno operare per diventare oggetti d’arredamento. Oggettificazione nel senso più letterale del termine, insomma.
  2. Il sesso ha sempre conseguenze impreviste, quando non proprio disastrose per il protagonista e la società. Basti vedere il già citato “Parasite Milk” o “La Marcia Carnale”, di cui potrei parlare in futuro e che trovo una delle opere più belle di Mellick.
  3. In tanti casi, i protagonisti non sono del tutto consenzienti. Proprio come il protagonista di “Parasite Milk”, spesso e volentieri gli uomini di Mellick vengono trascinati nel rapporto sessuale, con buona pace dello stereotipo dell’uomo che non deve chiedere mai.

Salvo qualche eccezione, questi tre elementi rendono il sesso dei libri di Mellick quasi fastidioso da leggere. Sentiamo sì gli odori e le sensazioni del protagonista, ma anche il suo ribrezzo e il senso di colpa e la paura.

Mondi di uomini deboli e donne sadiche

Copertina di La Marcia CarnaleUno degli aspetti più sconvolgenti del sesso in Mellick è proprio la quasi totale assenza di consenso da parte degli uomini. Purtroppo, i rapporti sessuali forzati con donne “indecise” sono fin troppo comuni, specie in un certo tipo di letteratura romantica. Siamo invece poco abituati a leggere di uomini in situazioni simili, specie in storie tutto sommato serie.

I protagonisti di Mellick sono spesso e volentieri uomini deboli, incapaci di prendere in mano la propria vita. Quando non lo sono fin dall’inizio, vengono ridotti all’impotenza da questo o quell’evento inaspettato. Non è sempre così, ma è abbastanza frequente.

Basti pensare a Steve de “La Vagina Infestata”, un musicista fallito che si fa bullizzare da un senzatetto. Nella primissima scena del libro, lo vediamo mentre viene scopato dalla fidanzata, impietrito dalla paura per via della vagina infestata di lei.

Dopo la discussione fece l’amore con me. Per lei, fu il sesso più selvaggio che avesse mai sperimentato. Mi aveva inchiodato sotto di sé, mi succhiava il labbro inferiore screpolato, e fece scivolare il mio pene dentro le sue parti intime infestate, godendo dell’espressione terrorizzata sul mio volto. Io non mi ero mai sentito così a disagio in vita mia facendo sesso. Giuro che quella notte sentii strane cose agitarsi dentro di lei. Sentivo i respiri dei fantasmi sulla punta del cazzo.

Ho qualche serio dubbio che il rapporto sia definibile consensuale.

Di contro, le storie di Mellick sono piene di donne forti, quando non proprio sadiche. Gli antagonisti sono quasi sempre di sesso femminile, donne bellissime e pericolose che faranno il culo tarallo al protagonista. Anche quando non sono il cattivo della situazione, lo mettono comunque in soggezione e lo riducono in una condizione di inferiorità.

Intendiamoci: non ne esce una visione della donna negativa. Al più, ho la sensazione che a volte la visione dell’umanità in toto sia negativa o quanto meno ambigua.

Possiamo parlare di FemDom?

Non ci allarghiamo. Non so se Mellick faccia parte del giro (e non mi interessa), ma sono abbastanza sicura che la disparità uomo-donna delle sue storie abbia motivazioni squisitamente narrative.

Il ragazzo sfigatello che si fa mettere i piedi in testa da tutti, donne e uomini, è il suo protagonista tipo. La donna spregiudicata e pericolosa, bellissima e sexy, che distribuisce calci in culo come caramelle ad Halloween è anch’essa un personaggio tipo. Come tutti gli autori prolifici, Mellick tende infatti a usare più volte le figure con le quali si trova bene. Niente di strano, sotto questo fronte.

Secondo me, questa fissazione per le donne forti e un po’ sadiche è anche figlia del desiderio di turbare gli animi. Nell’immaginario comune, la violenza è una caratteristica tutta maschile. Vedere una donna brutale ci turba, ci fa paura.

Ci eccita?

Ecco quindi che i racconti di Mellick si riempiono di donne in grado di metterti sotto, a letto e non solo. Donne strane, bizzarre, proprio come le storie nelle quali si muovono.


1 I libri di bizarro fiction sono fatti prima per divertire e poi, forse, per far riflettere, specie i migliori. Chi cerca di capovolgere i due punti di solito non ottiene né l’una né l’altra cosa.

Una storia concepita per coinvolgere il lettore e basata sul concetto di “scrivi ciò che conosci” trasmetterà anche la visione del mondo dell’autore, che questo lo voglia o no. Una storia che pretende di fare la morale senza curarsi di essere coinvolgente, invece, sarà quasi sempre noiosa e quindi fallirà nel trasmettere qualsiasi messaggio.

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