Angela non dovrebbe avere nulla di cui lamentarsi: ha una famiglia che la ama, un lavoro, un ragazzo. È la classica brava ragazza. Forse è proprio questo il problema.

I fari illuminano una buca larga metà della corsia. Giro il volante. Le sterpaglie sul ciglio della strada scricchiolano sotto le ruote. Torno sull’asfalto.

Accanto a me, Carlo va avanti con le sue lamentele.

«Ho sempre paura di dare fastidio. Va bene che stiamo insieme da cinque anni, ma c’è anche tua cugina ospite in questi giorni. Che dici?» Mi punzecchia il braccio con un dito. «Mi stai ascoltando?»

Mi mordo il labbro: dovrebbe essere in arrivo un’altra buca di quelle profonde. Una pozza buia interrompe il giallo dei fari. La evito.

«Allora?» La voce di Carlo è stridula. Mi punzecchia la spalla.

Perché cavolo non capisce che ho bisogno di concentrarmi quando guido?

Faccio spallucce. «Ti conoscono da quando avevi quattordici anni…»

La strada si piega a gomito e scende. Rallento, cambio la marcia.

«E…?»

La strada torna pianeggiante, le case di avvicinano: la parte brutta è finita. Sospiro.

«Certo che non dai fastidio: sei tipo un figlio per loro.»

Mamma e papà sono fin troppo contenti che sia sempre da noi, anche quando preferirei passare la sera per conto mio. Forse gli dovrei dire di non tornare più e basta. I miei ci resterebbero male, però.

Lancio un’occhiata di lato. È piegato di lato, verso di me, gli occhi fissi sul volante e lo sguardo perso. Un sorrisetto gli increspa le labbra.

«Per me è perché non abbiamo scopato prima del matrimonio. Loro ci tengono a queste cose.»

Mi passa una mano sulla nuca, la fa scendere fino al bordo del colletto, la fa risalire. Le unghie scheggiate graffiano la pelle. Muovo la testa, ma la mano si chiude intorno alla base della treccia.

«Lasciamo nella via dietro.» Ha la voce acuta e si mangia le parole.

Ah, è una di quelle serate in cui mi dimostra come rispetta la mia verginità.

Giro intorno alla palazzina rossa dove vive e giro a sinistra, dentro i parcheggi del supermercato. La luce gialla dei fari si interrompe contro il muretto in mattoni. Li spengo e rimane solo il chiarore del lampione all’entrata dello spiazzo.

Carlo mi lascia la treccia e fa scattare la cintura di sicurezza. Ha la patta dei pantaloni aperta e la t-shirt è alzata, quel tanto che basta per far fare capolino alla punta del cazzo.

Mi poggia un bacio a stampo sulle labbra. Fa scattare anche la mia cintura e con l’altra mano mi accarezza la testa. Ha le labbra semiaperte e il respiro rapido.

«Faccio schifo, lo so. Sono un uomo…»

Mi spinge la faccia sul cazzo. Profuma di pino: almeno si lava e da questa angolazione è solo un pene. Potrebbe essere di chiunque, anche del bel moretto del reparto vendite.

Lecco le labbra e aspiro il calore che viene da sotto: se lo prendessi subito in bocca capirebbe che mi piace e tirerebbe su un casino.

Devo essere paziente. Devo essere santa. Devo essere virtuosa.

Ansima. «Ti prego, angelo mio. Fallo per me.» Preme sulla mia testa e mi schiaccia la bocca sulle palle.

Strofino le ginocchia tra loro. Faccio scendere una mano tra le gambe. No, meglio dopo, a casa. Mi metto in ginocchio sul sedile e apro le labbra.

Carlo mi alza la testa, me lo ficca dentro e mi spinge giù. Mi riempie la bocca e affonda in gola; sotto la pelle liscia la carne pulsa di vita propria.

Chissà se anche il cazzo del moretto è asprigno e sodo come un pomodoro maturo. Sarebbe bello succhiarglielo. Lui magari farebbe scendere una mano lungo la mia schiena, mi alzerebbe la gonna e mi ficcherebbe due dita nella figa. Magari dopo ci metterebbe anche qualcos’altro.

Ho il petto pesante, ad ogni respiro un’ondata di calore mi prende in mezzo alle gambe.

Muovo le labbra su e giù lungo l’asta e gioco con la lingua intorno alla punta. Ho la bocca piena di saliva, rivoli escono dagli angoli e scendono sul mento.

Le mani mi premono ancora di più verso il basso, solletico le palle con il naso. La gola si contrae intorno alla punta: apro la bocca in cerca di aria, ma Carlo spinge ancora. Mi brucia la gola. Emetto un piccolo lamento. Una colata di saliva scivola fuori e si raccoglie sotto il mento.

Carlo sposta le mani. Alzo la testa e prendo una boccata d’aria.

Tiene gli occhi semichiusi e si morde il labbro inferiore. Mi poggia una mano sulla testa, l’altra chiusa intorno al cazzo. Se lo mena su e giù. Strizza gli occhi e un getto di sborra mi colpisce il naso e la bocca, caldo e amaro.

Raccolgo con il dorso della mano le gocce di sperma che mi scivolano sul collo, prima che sporchino la maglietta. Abbasso la gonna e mi raddrizzo. Tiro fuori una salviettina umidificata dal dispenser vicino al cambio e pulisco il pasticcio che ha combinato Carlo, come al solito.

Lui si riallaccia i pantaloni.

«Grazie amore, ci voleva proprio.»

Forse gli dovrei chiedere di ricambiare il favore, per una volta. No, mi risponderebbe che le ragazze per bene non hanno queste esigenze.

«Di niente. Ci sentiamo domani.»

Fa un cenno di saluto e scende. Si allontana nello specchietto retrovisore, sparisce.

La figa brucia. Metto una mano sotto la gonna: le mutandine sono fradice. Che shock sarebbe per Carlo: perfino io mi bagno!

Mi giro: il parcheggio è deserto.

Scosto le mutandine e affondo indice e medio dentro di me. Chiudo gli occhi, muovendo le dita avanti e indietro. Stringo un seno con la mano libera. Contraggo la figa intorno alle dita, mi accartoccio, l’aria abbandona il mio corpo e mi sciolgo.

Apro gli occhi. Prendo una salviettina e asciugo le dita.

Come sarebbe con un’altra persona dentro?

Mi mordo le labbra. Non dovrei pensare a certe cose: le brave ragazze non la danno via prima di sposarsi. Le brave ragazze si conservano per un unico uomo e io sono una brava ragazza.

Sono una brava ragazza, vero?


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