Via il dente, via il dolore: per molti versi, i primi due libri della saga “Fable” di Honor Pitt sono un disastro. Non è però mia abitudine parlare (solo) male dei libri di esordienti e piccoli autori. Se un libro è illeggibile, preferisco non parlarne e basta. Specie perché è poco probabile che lo finisca.
“Cappuccetto Rosso e la profezia” e “L’invariabilità della virtù” sono scritti male, a tratti parecchio male. Ciononostante, vi ho trovato qualcosa di buono che vale la pena coltivare.
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Le trame
I due libri sono ambientati in un mondo simile a quello del fumetto “Fables” di Bill Willingham, nel quale esseri umani e creature magiche convivono. I personaggi sono tutti personaggi di fiabe tradizionali, rielaborati in chiave adulta e affinché possano convivere nello stesso mondo.
“Cappuccetto Rosso e la profezia”
Celeste è l’ultima dei cinque figli di Gretel, una vecchia prostituta che vive in un paesino vicino alla foresta magica di Perceforest. Le tre figlie maggiori – Bianca, Spina e Rossa – lavorano insieme a lei nell’attività di famiglia. La piccola Celeste si limita invece a fare le pulizie, costretta a salvaguardare la propria verginità a causa di una profezia.
Quando Rossa sparisce, Celeste decide di attraversare la foresta per chiedere consiglio alla strega che vi vive. Il percorso si rivela però più impervio del previsto, costellato di incontri pericolosi per la sua vita e non solo… Riuscirà la ragazza a mantenersi integra e a trovare la sorella, ovunque la porti questo strano viaggio?
“L’invariabilità della virtù”
Bianca è una prostituta esperta, bella quanto cinica. Per lei l’unica cosa che conta davvero è la famiglia, per proteggere la quale sarebbe disposta perfino a rischiare la vita. Per fortuna, la regina le chiede di fare molto meno: basterà che seduca il suo primogenito, Damian, che si rifiuta di tornare a corte e di assumersi le proprie responsabilità.
Cosa si nasconde dietro al voto di castità del principe e al rifiuto di prendersi il trono? Non gli piacciono le donne? È asessuale? È impotente? Toccherà a Bianca scoprirlo, anche a costo di infilarsi in affari molto più grandi di lei e dei gusti sessuali di Damian.
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Il tasto dolente: lo stile
I due libri sono scritti male, ma c’è spazio di manovra. Vediamo quali sono i problemi.
- La punteggiatura. La mia punteggiatura non è impeccabile, la punteggiatura di buona parte di ciò che leggo non è impeccabile, nemmeno la punteggiatura di gente che fa il mio stesso lavoro è impeccabile. La punteggiatura di Honor Pitt è a tratti oscena: non usa né due punti né punti e virgola, sostituendoli con piogge di virgole. In alcuni punti, si fa fatica a seguire il periodo.
La cosa buona? Basta pochissimo per correggere la punteggiatura: un bel ripassino delle regole e passa la paura. - Il punto di vista, saltellante come nella migliore tradizione degli esordienti: prima Celeste, poi Lupo, poi di nuovo Celeste. Tutto nella stessa scena. Prima che qualcuno mi venga a parlare di “stile personale”, faccio presente che è molto difficile seguire e immergersi in una storia raccontata così. Quanto meno, Celeste e Bianca rimangono il punto di vista principale per buona parte dei due libri.
- Gli spiegoni, ovvero comodi (e pallosi) riassunti di vicende politiche e personali. A onor del vero, ce ne sono meno che in alcuni libri pubblicati da grandi editori.
Come potrai notare, sono tutti e tre problemi abbastanza facili da risolvere. Al contrario di altri, Honor Pitt pare aver capito che lo “show don’t tell” non è qualcosa che si mangia: usa un linguaggio chiaro, senza uscite auliche imbarazzanti; immerge il lettore nella mente del punto di vista di turno; costruisce scene quasi sempre coinvolgenti, anche se non sempre chiarissime.
Diciamo che ci sono le basi per costruire uno stile godibile e chiaro, con un minimo di impegno.
Dimenticavo: un bel taglio agli avverbi non sarebbe male.
Una buona gestione della tensione
Nessuno dei due libri ha una storia che fa urlare al miracolo, eppure sono coinvolgenti. L’autrice spinge fin da subito ad empatizzare con le protagoniste, anche se non sono mostri di simpatia. Si percepisce anche lo sforzo di creare personaggi secondari che siano un minimo tridimensionali. I cattivi sono un po’ carenti, invece.
Il grande pregio di entrambi i libri è la gestione della tensione. Siamo ben lontani da una divisione in tre atti perfetta, ma Honor Pitt riesce comunque a non annoiare il lettore. Fino alla fine, ci sono solo risoluzioni parziali, che spingono a continuare la lettura.
Può sembrare banale, ma ci sono moltissimi autori che risolvono tutto il risolvibile a metà libro, inventandosi problemi nuovi per invogliare il lettore ad andare avanti. Mi spiace, ma non funziona così.
Un grosso problema nelle storie di questi due libri sono le risoluzioni forse troppo semplicistiche. Soprattutto nel primo libro, ci sono un po’ troppi deus ex machina che rovinano la tensione. Nel secondo, il problema è un po’ meno marcato.
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Li consiglio?
Se non hai paura della punteggiatura oscena, sì: costano un euro a testa e sono disponibili anche con Unlimited. Mi auguro con forza che, presto o tardi, l’autore faccia una bella revisione. O quanto meno che i prossimi libri siano scritti meglio.